sabato 6 febbraio 2010

Poesie di M. Camaj

MARTIN CAMAJ




L'UOMO DA SOLO E CON ALTRI
(alcune poesie, nella traduzione di A. Cani)




C'è una vecchia città
-Palermo 1968 -

C'è una vecchia città sorta presto
sui meandri delle rocce
e non ha del mare il sentore.
Ha occhi stanchi, rivolti
in basso
bruciati dal sole disciolto
in acque salmastre come sangue.

C'è questa vecchia città
condita di palmizi nuovi al cielo
e un brusio di umane voci
senza eco, ai quattro venti, cordoglio
prolungato dacché è sorta
a oggi.



Elegia prima

Quando io sarò sfinito
dalle fatiche degli anni ripidi come rocce
non stare o Taze in pena, per me
steso su tavole di morte
agnello pronto al sacrificio.
Lascia che le vecchie piangano su me quel giorno
i loro morti, di vecchia data.

Un'ultima volontà, o donna:
quando morì mio padre, abbattemmo due buoi
per saziare gli affamati e le formiche dei campi
con briciole di pane.
Ma io morirò tra gente sempre
sazia,
per questo nei miei pranzi offrite
solo caffé amaro.


Due generazioni

Mio padre era
uomo di triste figura
albero d'ulivo senza foglie
ma con frutti neri ad ogni ramo.

Il suo verbo riecheggiava in noi
fragorosamente
quasi fosse l'ululato di un lupo
famelico solo tra rocce.

Mio fratello ebbe
a prendere il suo posto,
mio fratello scalzo
- vento baio all'orizzonte.

Soffia al fuoco in autunno
a pieni polmoni
e ogni scintilla gli dà un figlio maschio.



Racconto semplice

Vorrei volare sulle alpi coi piccioni
dissi a mio fratello il sanguigno.
"Non è cosa per noi!"
Non m'hai compreso, gli dissi, voglio darmi allo studio.
"Il latino – disse – non fa per noi:
impara prima la lingua del serpente!"

Mio fratello il sanguigno
a sei anni sapeva piantare al volo la lesina
in terra,
a dieci – tre spanne sulla testa il coltello
nel tronco novello. Una volta scrutato
la mia mente ne convenne e disse:
"Siam due mani per una sola testa: spartiamoci i doveri:
a me la spada – a te la penna!"

Prose brevi di R. Dibra

Ridvan DIBRA



alcune prose tratte da "Stina e Ujkut"(UNA STAGIONE DA LUPI)








Amore di volpe

Assuefatto dalle donne della sua specie (vale a dire le lupe), il lupo ebbe brama di fare all’amore con una volpe. Incrociò lei in un mite crepuscolo di primavera inoltrata.
- Voglio fare all’amore con te, - disse il lupo.
- Questo è impossibile, - disse la volpe, - inaccettabile e irrealizzabile.
Pareva sincera nelle sue parole. Per contro il lupo fremeva dalla voglia.
- Io voglio fare all’amore con te, con le buone o con le cattive, - disse il lupo. - Che vengano pure sconvolte tutte le leggi dell’universo. Per un lupo non c’è niente d’impossibile.
La furbona, che ultimamente (più che mai) si fidava del proprio acume, fiutò subito che quella richiesta assurda celava un goffo tentativo d’inganno, uno sforzo per nulla sveglio di coprire il vero scopo del lupo che stava cercando di sfamarsi con della fresca carne volpina.
- Accetto, - disse la volpe. - ma che non sia qui. Troviamo un posto più adatto.
Si misero in cammino. Senza che avessero fatto neanche dieci passi, si udirono le grida del lupo: era caduto in una trappola mortale.
- Per una volpe tutto è possibile, - disse la volpe.
- Vi sbagliavate signorina. Io volevo soltanto fare all’amore con lei. Nessun altra cosa era mia intenzione, - disse il lupo.
Sembrava molto sincero in questa parole. Come sono le ultime parole; quelle che avvengono sul letto di morte.


Cose e persone

Era meraviglioso il tempo in cui tu ripartivi le persone semplicemente in buoni e cattivi. Ai buoni ti avvicinavi come ad amici, mentre dai cattivi ti tenevi alla larga.
Così ti avevano consigliato i libri, le esperienze, i tuoi cari; in una parola, tutti quelli che ci tenevano affinché tu avessi una formazione la più normale possibile. Tutto d’un tratto, una serata autunnale d’ottone, qualcosa si sconvolse in fondo alla tua anima: nella frazione di un secondo tu scorgesti abissi e precipizi infimi di cui non avevi idea alcuna, spalancarsi.
Dopodiché sentisti l’esigenza di fare una nuova ripartizione della gente che ti circondava. Nel primo gruppo mettesti coloro che valevano per qualcosa (vale a dire quelli che lasciavano delle tracce su questo mondo), invece nel secondo tutti quelli che sorvolano la propria vita come la brezza di marzo sulla neve congelata, senza lasciare alcuna traccia su di essa i quali, naturalmente, costituiscono di gran lunga la maggioranza.
Passò il tempo e gli squarci della tua anima presero a chiudersi. Qua e là si potevano scorgere i segni dello guarigione come le tendini dopo un’operazione di scarso successo, mentre a tratti erano rimaste tracce cineree di fuliggine, come quella che lascia il lampo quando colpisce, per poi esiliarsi in cielo. Dopo di ciò tu rivedesti l’esigenza di aggiornare la classifica della gente che ti circonda, ma nel mentre sentisti che tal cosa non era facile da realizzare: gli squarci dell’anima non s’erano chiusi del tutto (e a quanto sembrava a farlo ci sarebbe riuscita solo la morte), mentre il cervello per il momento, si trovava impreparato a siffatte analisi.
Fu allora che decidesti di lasciare la gente alla loro pace sacrosanta e occuparti dello studio e della classificazione delle cose che ti circondavano.


La solitudine del sole


Il sole gira nello spiedo della solitudine come un agnello sgozzato. La solitudine lo fa vecchio. Lo cuoce vivo. Il fatto che dalla sua combustione viene poi resa possibile la vita di milioni di mondi e di persone un po’ lo consola, ma non al punto da annientare quei serpenti di fuoco e d’ego che la solitudine dà alla luce in ogni momento. Ancora il fatto che ci sono tanti altri soli come lui che girano solitarî e soffrono, non lo consola come dovrebbe.
La diceria diffusa un miliardo d’anni prima e che continua a circolare a tutt’oggi per la galassia, secondo la quale è lui stesso a cercarsi la solitudine usando ogni minuto le orride protuberanze per allontanare ogni possibile visitatore, questa diceria dunque, o per meglio questo pregiudizio, gli causa solo un amaro sorriso cinico.
Non sanno che lui molto sovente, in particolare le notti di autunno e d’inverno, usa tenere rinchiuse nel suo petto quelle orride protuberanze (rischiando di collassare a sua volta), strutto dal desiderio di venir visitato da chicchessia. Anche da qualche pianeta del tutto minore e di seconda mano, come la Luna ad esempio.
O anche dalla Terra.


Lo stagno

Lo stagno è sempre lo stagno; non fa che dare vita ogni minuto a esseri vili. Ti seduce e ti invita misterioso come tutte le cose stagnanti e tu, pur avendo una ingente esperienza circa i falsi amici e falsi profeti, avvolti da una membrana menzognera si segretezza e di mistero, nonostante ciò dunque, assecondi quella cattiva abitudine che hanno avuto pure i tuoi bisnonni, proprio l’abitudine di provare da soli tutto.
Tardi, molto tardi quando tu finalmente sei caduto preda di una delle innumerevoli trappole che escogita ogni minuto lo stagno, ti sovvieni di certi segni premonitori evidenti, come lo sono state ad esempio le punture delle zanzare, l’ansimo fangoso dei canneti oppure i morsi velenosi dei serpenti, segni che hai sottovalutato con molta superficialità, lasciandoti sedurre come un bambino da qualche garofano raro e di scon-volgente bellezza, che solo lui poteva generare: lo Stagno.
Proprio quando ti poni e poni ad altri la semplice domanda: giustificheranno mai l’esistenza dello stagno questi rari e strabilianti garofani che egli solo da?
E come sempre in questi casi, ricevi due risposte.
Una è negativa.
Positiva l’altra.


Le esperienze

Il lunedì lui esce presto di casa e senza fare manco dieci metri si trova davanti ai piedi una buona decina di cuccioletti appena nati che, or ora cominciano a scorrazzare davanti a lui. Il sole promette bene, la gente vicina é bonaria, mentre i cuccioli – terribilmente belli e innocenti.
A mezzogiorno, quando ha fatto solo metà percorso, vede che i cuccioli davanti ai suoi piedi sono cresciuti spudoratamente in fretta e lo mordicchiano di volta in volta. Il sole scotta, la gente intorno sembra furba, mentre i cani – odiosi e diabolici.
La sera rincasa tardi. A poca distanza dall’entrata vede davanti ai suoi piedi una buona decina di vecchie cagne che, subito prendono a morderlo finché possono. Il sole è ormai tramontato da tempo, la gente ha fatto in fretta a rintanarsi ciascuno nella propria dimora, mentre le cagne sembra che abbiano preso la rabbia e non si capisce come possono essere loro i cuccioletti della mattina.
A mezzanotte inoltrata, lui si corica, convinto di essersi liberato una volta per tutte dalle cagne, quando a un tratto sente il loro guaito pestifero dietro la porta.
Allora lui comincia a domandarsi se ha fatto bene a fermasi coi cuccioli quella mattina.


Il mistero del cespuglio


Tu sei nato nella giungla, ci sei dentro da una vita e ormai puoi vantarti di conoscerla bene. La tua conoscenza è stata ulteriormente migliorata dagli innumerevoli racconti di genitori, nonni e bisnonni, che, come te, sono nati nella giungla. Inoltre, tu hai letto un’intera biblioteca di libri dedicati alla giungla.
Grazie a questa conoscenza, lei non ha più misteri per te. Ma questo fatto, vale a dire la completa decostruzione della giungla, a te, stranamente, non causa nessunissima gioia. Anzi. Provi un odio e una gelosia da monomaniaco nei confronti di tutti quelli (genitori, nonni, bisnonni, figli, esperienza) che ti hanno aiutato in questo processo lungo e faticoso di demistificazione.
E parti verso un dove, poggiando forte sulla tua tristezza come sul bastone. Mentre passi per i sentieri ormai arcinoti della giungla (schivando magistralmente le trappole che conosci come le tue tasche), all’improvviso giunge a te la vista in un angolo di un cespuglio modesto, con piante e radici ingarbugliate come le pene di un’anima malata. E sempre all’improvviso ti rammenti che nessuno si è mai ricordato di parlarti del piccolo cespuglio.
Né genitori né bisnonni, né i libri né le esperienze. Niente e nessuno. Forse non sapevano della sua esistenza e tu sei il primo a scorgerla. La tua fantasia stanca dalla lunga ricerca e senza trovare misteri, ne viene subito eccitata. Tremolante dall’impazienza, t’avventi verso il cespuglio come verso il tuo indefinito destino e ringrazi di tutto cuore la giungla per aver serbato a te un’incognita, un mistero, una chance di scoperta riservata a te e a te solo. Con le mani tremanti dalla febbre della tanto agognata scoperta apri il ventre del cespuglio e ti ritrovi davanti… un riccio. Un riccio vecchio come il mondo.
Allora tu ti lasci cadere in ginocchio e piangi come un bambino.
Mentre dietro le spalle odi come sogghignano i bisnonni.


La pelle della serpe

La serpe si spogliò della sua pelle, l’appese sul ramo essiccato del melo, e se ne allontanò senza rimorso alcuno.
La volpe passò di lì, si fermò per qualche istante, ma giudicò la pelle senza valore per lei.
Il lupo udì qualcosa circa una pelle di serpe appesa da qualche parte, ma la mancanza del sangue in essa lo lasciò completamente indifferente.
L’uomo si prese la pelle della serpe, e ne fece un paio di meravigliosi guanti per le sue innocenti mani bianche.


Bisnipoti e bisnonni

Ehi, uomo, che di giorno in giorno completi il tuo guardaroba, organizzi anno dopo anno sfilate di moda e, con questa naturale cura verso il tuo corpo, testimoni sempre di più che poche cose ti legano ormai al tuo bisnonno pigrone e sottoevoluto – la scimmia.
Ebbene, uomo, non t’accorgi (o fai finta) di un fatto alquanto strano: ogni volta che incontra il suo bisnipote (vale a dire, proprio te, uomo) la scimmia cerca di coprirsi soltanto la faccia, noncurante delle altre parti del corpo che, se le trova, naturalmente, scoperte.
Interessante. Non credi?


La relazione

L’emerito professore, insignito di vari titolo e gradi scientifici, membro onorario di una buona decina tra le più note accademie del mondo, è stato invitato a tenere una relazione nell’ambito di una conferenza internazionale che ha per tema il futuro della società umana. Per tutta la durata della settimana in cui il professore si preparò a riferire, godete di un meraviglioso stato d’animo e di salute (o vice-versa), come anche di una splendida armonia con la consorte, come anche di una perfetta intesa coi figli come anche di un notevole incremento del redito personale e famigliare. In simili circostanze, nel discorso del emerito professore, l’avvenire della società umana venivo presentato come luminoso e di ottime prospettive.
Un giorno prima di consegnare il discorso scritto alle orecchie del mondo, il professore sentì un generale indebolimento fisico e spirituale (o vice-versa), da fonti affidabili seppe che la moglie lo tradiva col suo assistente, uno dei suoi figli abbandonò la casa per dei motivi del tutto assurdi, mentre il redito personale e famigliare subì un sorprendete calo.
In simili circostanze, l’emerito professore strappò il primo discorso che gli sembrò inventato di sana pianta e per niente realista, e entro quello stesso giorno ne compilò uno nuovo dove il futuro della società umana si prospettava buio e senza via d’uscita.


L’uomo delle nevi

Lo yeti lasciò i deserti di giaccio, le trote congelate e le eterne bufere partendo alla volta della città che, da lontano, sembrava una torcia infuocata. Gli fu riservata un’accoglienza a dir poco regale: pranzi a banchetti senza posa, conferenze stampa a non finire e incontri con diverse personalità importanti, curiosi d’ogni sorta, giornalisti e reporter che non lo lasciavano un minuto in pace.
Proprio adesso cominciò la tragedia dell’uomo delle nevi: dalla perdita della solitudine.
L’indomani lo yeti lasciò la città che ardeva come una torcia infuocata e partì alla volta dei deserti di ghiaccio, delle trote congelate e delle eterne bufere.


Al circo

Sotto il fischio ritmico della frusta che porta in mano (nella sinistra) il domatore-uomo, gli animali corrono in cerchio attorno all’arena, testimoniando senza tregua la totale alterazione del loro comportamento e la riuscita manomissione della loro indole. Fuori hanno smesso come una pelliccia non necessaria l’orgoglio e la fierezza. O perlomeno loro (gli animali) così credono. Perché se si mostrassero un po’ più attenti (questi animali) potrebbero vedere come le loro pellicce sono indossate dal pubblico che applaude lì intorno. D’altra parte, il pubblico che crede in una totale trasformazione degli animali sull’arena, se si mostrasse un po’ più attento, potrebbe scorgere una strana brama nei loro occhi. Quella di fare cambio di posto. E di ruolo.


Il camino

Ora persino lui ha ammesso di essere fuori moda. Questa triste verità gli è dimostrata dalla fuliggine nera e fitta che gli ha intasato i polmoni, rischiando di spezzargli del tutto il fiato. Il suo padrone lo accende di rado, molto di rado: una volta in dieci anni. Anche allora sola quando càpitano ospiti famosi. Anche allora solo d’estate. Il che significa che fa così solo per snobismo, senza sentire nessun bisogno del calore liberato dal suo camino, pur tuttavia gioisce come un bambino del fuoco che gli viene acceso sul grembo. Al che, poverino, osa nutrire una piccola speranza. Ma, ahinoi, le lingue delle fiamme (come scherni) non fanno più che leccare quelle mura di pietra, senza essere in grado di graffiare minimamente la fuliggine nera e fitta. Allora il camino si ritira nella sua solitudine e mira con odio e disprezzo palese i suoi rivali vincitori: quelle sottospecie di caloriferi e stufe elettriche che si moltiplicano di giorno in giorni come conigli.
È raro, Dio com’è raro!, che qualche serpente di fulmine abbandoni il cielo, trovi la stretta la gola del camini e bruci incenerendo la fuliggine nera e fitta. Allora e allora soltanto il camino si sente vivo e la sua secolare fuliggine sposando il lampo lancia certe scintille che stupiscono il mondo intero.
Solo che questo avviene una volta in un millennio.


Il compromesso

In una mattino consueto, normale fino al disgusto, tu hai costatato con tema che i tuoi piedi non si fidavano più del suolo, proprio di quel suolo a cui finora avevano creduto ciecamente, poggiandovisi senza posa giorno e notte. Il raggiungimento di questa conclusione ti ha letteralmente sconvolto.
Hai fatto anche un'altra prova. Un’altra. Altre dieci. Altre mille. Ma è stato inutile: le gambe non se l’intendevano più una con l’altra: la sinistra andava avanti, la destra – indietro, la sinistra attaccava a destra, mentre la destra – a sinistra; tu ti stancavi, sudavi tra faticosi tentativi di ritornare ai vecchi tempi, alle tue giornate normali, ma sentivi che oramai era tutto inutile: i millenari equilibri erano crollati, il tuo secolare patto con la terra era rotto una volta per tutte: tu avevi dimenticato di camminare e ogni volta che cercavi di realizzare una cosa simile, somiglia-vi più alla scimmia che non all’uomo, della cui famiglia avevi l’onore di far parte. In definitiva: tu avevi dimenticato di camminare! Senza dubbio la dimenticanza più tragica e più assurda che può capitare aquesta gente che non si è ancora decisa chi chiamare finalmente bisnonno: Adamo (Adem) o La Scimmia (la bestia).
Dopo tale nefasto accorgimento, ti sei ricordato dei cieli, degli spazi, dei voli. Ti sei con-vinto che anche gli uccelli che adesso volano, hanno dapprima dimenticato di camminare. Ma poi ti sei ricordato che il volo da almeno cent’anni è fuori moda. Allora tu, se pur nemico dichiarato dei compromessi di ogni genere, sei stato costretto a farne uno ma questo giusto per garantire la tua esistenza.
Il nocciolo del compromesso è questo: quando cammini, dichiarare agli altri di star volando (così che loro quelli non notino i tuoi terribili difetti in cammino), e quando voli, dichiarar loro di star camminando (così che quelli non ti considerino sgarbato).
Ora come ora, dopo siffatto compromesso, non te la passi poi tanto male.


Il pozzo

È alquanto raro che qualcuno si ricordi di lui e le sue acque mefitiche somigliano ad un’anima deteriorata. Brulicano di ranocchi e serpi d’ogni sorta che pendono per le pietre ammuffite, come gli intenti egoistici nell’anima. La carrucola sopra d’esso è arrugginita e a volte, quando tira vento forte da terre lontane, emette un cigolio come da pianto o da gemito.
Una volta, in un autunno mite e solare, una ragazza disgustata da l’acqua pura delle sorgenti che bevevano tutte le sue amiche, decise di colmare la sua sete con l’acqua sta-gnante del pozzo e, come ce lo si poteva aspettare, s’ammalò: i segni della caducità le si presentarono di colpo.
Imprevisto fu però l’immediato schiarirsi delle acque del pozzo, e la scomparsa di tutte quelle serpi che vi brulicavano da secoli.


La cima e l’abisso

Tu eri deciso a scendere nell’oscuro abisso pericolante per poi risalire in cima alla cima. La tua gente, proprio la gente a te più vicina e più cara, vale a dire i genitori, la sorella, la moglie (la figlia era ancora piccola per intromettersi nei tuoi affari), considerarono te pazzo e pericolosa la tua idea; così che ti contrastarono con tutte le loro forze.
Mentre la gente a te più lontana, vale a dire amici e compagni, compresero e invidiarono la tua idea, ma anche loro ti contrastarono, considerandoti impreparato per una simile impre-sa. Tu all’inizio, cercasti di persuadere la gente a te più prossima che la discesa nell’abisso non doveva essere considerata come una pazzia, anche se a prima vista poteva non sembrare così normale. Loro non compresero affatto e cercarono di trattenerti con la forza.
In simili circostanze tu non avevi altra scelta che uccidere la gente a te più vicina, vale a dire i genitori, la sorella, e la moglie (la figlia era ancora piccola per essere coinvolta in queste cose), e partire per la tua strada. La gente a te più lontana, vale a dire amici e compagni, cercarono di impedirtelo con congegni e sotterfugi d’ogni sorta. In simili circostanze tu non avevi altra scelta che ferirli e voltar loro le spalle.
…Ora sei spuntato dall’abisso e ti accingi a raggiungere la cima.
Sei sicuro che non appena arrivato in cima alla cima, la gente a te più prossima risusci-terà.
Ma temi che le ferite inferte ad amici e compagni diverranno mortali.

versione di A. Cani

venerdì 5 febbraio 2010

Poesie di F. Rreshpja


FREDERIK RRESHPJA




LA MORTE DI LORA
poesie


Scelte e tradotte da Astrit CANI


L'opera di Frederik Rreshpja è poesia di prima classe del calibro europeo.
Hans-Joachim Lankch, (traduttore e letterato - Germania)



...la poesia di Frederik a me in quanto conoscitore della letteratura albanese, è parsa veramente di grande pregio.
Jose Riviera, (critico - Spagna)



...questa è una poesia sconvolgente e di una maestria che a noi americani manca.
Henry Israel (editore - USA)



...avrei voluto che Frederik fosse russo oppure io fossi albanese, poiché amo molto la sua poesia straordinariamente intelligente e sensibile. Noi abbiamo Puškin, Esenin, e gli albanesi devono essere fieri di avere cotanto poeta.
Ivanov (critico - Russia)



...sono rimasto sconvolto da questo uomo che possiede una genialità dei Balcani, che sono il luogo dove l'arte è nata.
Leo de Roi (critico - Francia)



...Fredi ha vissuto con la morte alle calcagna per lunghi anni, e non ha potuto che scrivere ogni sua poesia come se fosse l'ultima.
Shpëtim Kelmendi (scrittore - Albania)





VIGNETTA

Un salice ermo, coperto d’inverno
Spoglio da uccelli e foglie:
Come scoiattolo balza il vento per i tronchi
Col boccio di pioggia tra i denti

Le notti felici, da campanellini
Trillano sui rami della memoria…
Si profilano sullo sfondo dei lampi
Le lune che si sono mangiate le greggi

Cascato dal vetro infranto del cielo
Il cristallo di giaccio albeggia le notti
E sui pastelli di neve infreddolisce
Il salice triste, quale tragico Serembe .



AUTUNNO 1990

Piange il cervo in radura e le lacrime si fan pioggia
Si rattrista il vento sulla roccia
Non ci sono più foglie verdi. Stanno cadendo
I sogni dei boschi ad uno ad uno

Fuggono gli uccelli lo spogliarsi dei tronchi:
Addio, o boschi dei Balcani!
Solo un cespuglio azzurreggia ancora
L’ultima viola del canto d’usignolo

Ah, venga l’autunno senza migrazione d’uccelli!
Che venga il buon Dio, a prender in mano le stagioni!



PRELUDIO

O aria della sera avvolgimi, è ora che io muoia di nuovo.
Quando si chiuderanno i miei occhi, non ci sarà più mare
Per le imbarcazioni di lacrime.

Vado e lascio chiuse tutte le piogge.
Ma tornerò ancora ad ogni stagione che vorrò.
Sono stato la tristezza del mondo.
O aria della sera avvolgimi, è ora che io muoia di nuovo.


Ritorno alla città natia

Eccomi di nuovo tornato nella Scutari dei re
Eretta pietra su pietra
Sulle nude spalle
Di una donna
Dai fratelli traditori.

Sui rami della pioggia cantano gli uccelli
Sotto il grande albero del mezzodì
Le foglie cadono a ingiallire la mia anima.

Poi,
Io le scaravento al cielo per fare un autunno
Ma tu non ci sei più…

Ora
sei negli albori delle stagioni
per ciò non ti tocca più il gioco d’aria e di sole
che assurge sulle nubi come su un altare pagano.

Appaiono
Nel vespro le rose tessute di sole
Ahi ora persino le rose mi ricordano i camion con i ragazzi uccisi
Com’erano belli e giovani mio Dio!
Arrivederci ragazzi su un pianeta senza dittatura

Nell’aria
Appaiono i patriarchi della poesia albanese
Bogdani, Fishta, Mjeda e Migjeni
I miei padri vagano per l’aria perché hanno i sepolcri infranti.

Ora
Pure il marmo della mia voce è infranto
Ora
Che è scesa la sera e la statua della notte bussa sulla vecchia finestra

Dai vetri franti.



Ave, madre mia!

Sto sotto la pioggia. È questa l’unica cosa che voglio.
Che è questo? Chiedono le stille di pioggia sulla mia fronte
Così ho udito la voce della pioggia
Un giorno d’estate accanto alla vecchia quercia
Alla porta spalancata per gli uccelli.

Ahi, quand’ero giovane e bello credevo
Che tutte le piogge del mondo cadessero per me
Ma ora che tanti anni sono trascorsi
So che non fa senso alcuno che piova.

Ecco andata anche mia madre sotto una pioggia di marmo
Nell’archeologia degli dei che cadevano

Ave, madre mia!
Solo in te ho creduto
Altro Dio non ebbi mai. Amen!



Torso


Assurgi dal regno di pietra!
È da così tanto che busso sui marmi.
Mille anni e duemila.

Ci siamo baciati tra illiadi venerande
Quando gli Omeri suonavano la lira
O luna della pioggia, cieca maestosa!
Fai un Iliade per me
Quando sarà caduta anche l’ultima Ilion…

Sta chiuso nella pietra il mio cuore
Mille anni e duemila.


LA MORTE DI LORA

Giaci nell’ora vespertina come se i tempi ti fossero crollati addosso,
Pronta per l’eternità.
Non mi parli. Hai dato la tua parola alla morte, lo capisco.

Ma tu a questo mondo venuta sei per me, non per i cieli.
Siamo sempre stati insieme, fin da giovani,
E ora m’hai lasciato!

Mi fanno tristezza le stagioni. Tu lo sapevi
E dal mondo mi separa una via di miglia solitarie

Abbiamo detto cose che non saranno capite mai.
Abbiamo camminato per i secoli, davanti alle piramidi,
I nostri nomi erano scolpiti
Anche quando non avevamo la roccia.

Ma queste cose non saranno mai capite.
Come i vangeli.

Siamo stati belli entrambi, ma tu ora
Sei ancor più bella, con un poco di morte sugli occhi.


SHIROKA IN INVERNO

Non vi sono più uccelli. I voli sono cancellati.
Nulla fuorché la primitiva aura della pioggia.

La riva rimugina ai piedi delle acque
Sognando l’estate passata.
Nella sabbia dell’oblio io raccolgo
La ceramica del tuo ritratto.

Che breve questa estate, mio Dio!
Un pugno di sabbia e un pugno di sole.
Tutto il calendario dell’estate con un solo sabato
E tutto il sabato con un bacio soltanto.


Rimani, stasera da me


La luna sul fiume disegna
Un ponte per i sogni delle stelle;
Nube grigia, l’obliata nostalgia
Rimette il capo nelle mani della selva.

Venisti per la via della luna,
Sbocciarono ai portici le rose.

Rimani stasera da me
Il tempo che le rose dei tronchi morti siano mature.


IL GIARDINO

I leoni infranti della prima età
S’abbeverano al vecchio pozzo;
Su fuochi di rose Saadi riscalda le mani
Con un turbante di rugiada.

Sovente dai miti balzano fuori i satiri
E spalancano le porte delle ombre.
Rimira i sentieri notturni il gelsomino
E la luce gli scorre tra le dita.

Narciso sorge dalle gemme
Innamorato del proprio amore;
Io avverto sulla fronte gli scalpelli
Della primavera che dall’erba mi fa gli occhi.



Ad ogni modo

Ad ogni modo
Questo mattino mi morirà nelle mani
Ad ogni modo, la gente saprà inventarsi un mattino,
Come ha inventato i mari, le stelle, la pioggia
E le tante altre cose che non esistono.

La notte è proprio la tua ombra
Che hai mancato di raccogliere.

Ad ogni modo, io potrò scrivere liriche moderne,
Ora che è troppo tardi per cose che non esistono,
Come ad esempio la felicità.

O bei bambini, pioggia di fiori e quant’altro,
Per cui la Genesi incolpa il buon Dio!



Elegia

Sono fiorite le rose nel mattino
Di petali color lampo,
E mi sono rammentato dei canti passati
Che sono morti defunti in un’aria morta in ugual modo.

Esco in vano ad attendere alla porta avvoltolata
Con la mia ombra recisa dalla trascorsa notte.
Le rose lampeggiano in silenzio per la mia disgrazia
E io so che non verrai mai più.

Ma la notte mi trova così, come la statua dell’attesa
In un’aria che muore lentamente e fa inverno
Col pazientare del marmo che indugia per secoli sotto la roccia.























Requiem

Nuota nel ruscello di tutte le foglie cinto
Un giorno morto d’autunno
E gli ultimi migranti se ne andarono raggelati
Su occhi gialli in silenzio

Casca dagli alberi lo sgomento della neve
La valle incerata di luna
E le rene del vento si danno al pianto dolente
Con le corna di ghiaccio spezzate

M’è morto anche sto autunno, ho perso pure questo giorno
Col sudario di foglie secche
O invero delle renne colle corna al vento
Quale autunno dovrei piangere per primo?



I FIGLI DEL MARE

Le stelle del mare nelle tombe azzurre
Avvolte nella notte d’acqua…

Ora son figlio dell’aria, come nel primo giorno del creato
Dannato nel più biblico dei modi.

Ora sono figlio della luna.
Tutte l’altre isole sono false.
No, non c’è Itaca a questo mondo.

Non tornerò mai più,
Perché nessun rivo mi fu leale.



DOLORE

Nostalgia sale dalle radici e va in fiore.
O ciliegio che mia madre piantò
Io sono tuo fratello!

Entrambi ci ha cullati nelle sue mani:
Cresci, cresci figlio mio!
Cresci, cresci o ciliegio!

Ah, mia madre da una classe all’altra:
Figlio, gli dei si sono adirati.
Come era bello quando eravate piccoli
E pregavate entrambi la Madonna.

Culla il vento lo strazio delle foglie
O forse le mani della mamma disegnate al volo.
Cresci, cresci o ciliegio!
Io non fiorirò più a questo mondo…


MOMENTO

Il cielo assurdo, il mio sogno che un giorno avrei volato!

Capita alle volte che si faccia marzo
Ma la solitudine è d’inverno.

I tuoi occhi mi guardano da oltre l’orizzonte delle nevi
Alla fonte ove dormono le stagioni, danza il marmo delle leggende.

Stanotte tu diventerai pietra!
Non amerai mai più!

Il cielo assurdo, il giocattolo dei bimbi d’aria!
E io che credei un giorno avrei volato…



LASCIAMI VENIRE CON TE

Nel campo camminano i gitani e sulle spalle
I tamburi pendono come salme
Mentre gli spiriti del deserto
Non si sveglieranno mai più.

Dal nido della pioggia è volato
Il canto delle nuvole carico di pianto.

Lasciami venire con te!
Questo è il mio ultimo tramonto.
Io vengo da te per morire, non l’hai capito?

Devo proprio morire e devo poi
Cospargere il sangue mio sulle rose
Sotto una luna di Gerusalemme.



VENGONO I GITANI

Vengono i gitani con tamburi e luna
Alî, piangono e si sgolano.
Come in fretta hanno montato le tende
Attorno alla mia anima d’acqua.

Ero giovane ed ero bello,
Ero ardente in amore.
Ora tante cose ho trascurato
Per un po’ di luna e magia…

Si sgolano i gitani coi tamburi
Per i crucci dei deserti lontani.
Io veglio e veglio al rivo del fiume,
Dannato d’amore e di luna.

Il coro di rose versa lacrime d’oro
Di tamburi e luna, rattristato.
Ah, com’ero giovane e bello un tempo
Un tempo in un marzo passato!



DOVE ERI TU

Dove eri tu quando uscii da solo sotto la luna?
Su quale altra luna passeggiavi mai?

Dov’eri quando disegnavo il tuo profilo
Sul vetro del tramonto che si franse con triste cigolio?

Poi venne la notte piena della tua assenza
Poi rivenne la notte
E così sarà fino all’ultimo giorno delle notti.

Scesi alla fonte
Tenendo tra le mani il vaso fragile dell’aurora
Vidi il tuoi occhi conservati nella memoria delle acque.

La vecchia quercia ha smesso la corona autunnale
Come un sovrano che abdicasse.
Fa niente, a me questa maledizione m’ha raggiunto.
Ma come farà il bosco senza te? Come farà a farsi autunno?
O forse non si farà autunno mai più?
Allora a nome di chi cadranno le foglie?
A nome di chi verranno piogge, nebbie, arcobaleni?
Ah, cuore mio, torna a porre mano sulle stagioni!













BOZZETTI

I.
Non credere alla dannata magia
Del telefono infausto
Inviami il tuo verbo via folgore

II.
Manciata di proiettili sulla vetrata.
Metallo assassino! Giù alle radici dei terremoti.
Di’ non hai mai saputo che nel mondo ci son statue?



VECCHIA AMICA

No tu noi sei imbianchita vecchia amica
Ma l’amalgama pazzesco degli specchi
Ti ha coperta d’inverno.

Scappa agli specchi,
I stagni sono più onesti
Perché ti fanno narciso.

Ma come sei sparita tutt’a un tratto?
Eri così, piena di fughe anche da giovane…

Ti cercai per le hall degli alberghi,
Solo in un punto presso un vecchie bar,
Ala spezzata di gabbiano in fuga
Rimaneva un poco d’inverno da te.



CIELO DEI VERDI ANNI

Cielo dei verdi anni su becco d’uccello
Caduto sul boschetto di fiabe;
Dalla via lattea scende e scende
Il quadrifoglio d’oro del firmamento.

Le campane di stelle oziano in allegria
Recise dalla luna di maggio.
Il cielo dei verdi anni su becco d’uccello
Sparito alla porta dell’arcobaleno.

Spariscono alla porta tinta gli anni verdi
E mi ricopre la tristezza
Sotto una luna che non sa sorridere,
Nel mondo che non mi sa capire.


IL POETA NEL DESERTO

Assurdità senza alcun messaggio alle TV del mondo.
Di rado qualche nuvola, fuggita al gregge
Se ne va allo sbando sul paesaggio arabico.

Lui se ne sta a capo chino nelle mani del deserto.
Agli aerei fa cenni di saluto.
Aspetta una rondine che per sempre tarderà.



LE ALPI MALEDETTE

Le Alpi Maledette,
magia di pietra, disegnata con tormento.

Dolenza di una rapsodia dimentica
Ansima nel vento, chissà dove.
Dicembre cade a gocciole tra i pini
Spuntati dai verdi anni di Omero.

Nubi sui dirupi
Brandendo le scimitarre di pioggia,
Sul fondo dei ruscelli le spoglie dei lampi a biancheggiare.

Ma dove ti sei dissolto tu che facesti tutta questa sciagura
Solo per un bacio lasciato a metà?



PIOGGIA DI LUNA

Da arlecchino ch’è uscito a passeggio
Pel giardino dimentico dell’infanzia,
La luna afflitta tra le nuvole
Calpesta i ramoscelli della pioggia.

L’ermo lago sul rivo della notte,
S’inquieta tra le braccia del vento
E sotto la sirena dell’onda azzurra
Lacrima sul viso dormiente della leggenda.

Le stelle sull’asfalto come un vespero spezzato.
E i pioppi come monaci neri.
Nascosto tra gli alberi dove origlia
Antico assassino, lo strazio.

Eh, si potrebbe che il coltello dello strazio
Da qualche parte mi lasci giù per terra,
Nascosto in un tramonto incrinato
Nascosto tra piogge di luna…



LUOGO NATIO DELLA MADRE

Lassù la luna erige scale di luce sull’abisso
Lassù assurge il mio cuore
Forgiato dal legno di liuto

Lassù appeso nei rami di quercia
Ho la mia bisaccia di canti.
Ho perso il bastone per strada
Vicino al ruscello ha germogliato.

Ho visto l’infanzia di mia madre
Custodita nei riflessi delle fonti,
I canti della sua giovinezza
Ormai mutate in vento.


ELEGIA PER LA MADRE

Aereo che fugge per le nebbie
Reietto dell’isola di luce...
Ah, dove sei caduta, dove ti sei dissolta così?
È spuntata l’erba dai tuoi occhi,
È spuntata l’erba dalla tua voce.

Dai colli ora scende le notte pregando per te.
È questa l’ora in cui le ombre si prosternano
E tu stai rannicchiata sotto terra
Al marmo rovesciato degli dei…

Ora che non ci sei, non verdeggia più l’alloro
Solo la mia voce di gioventù echeggia su foglie gialle
E l’alloro porge corone in gloria al tramonto
Come era tutto un mondo quando c’eri tu
Ma ora è giunta solitudine che cancella ogni cosa,
Ora che solo da qualche parte all’orizzonte
I lampi si fanno la croce e brandiscono i coltelli.

Ah, dove sei caduta, dove ti sei dissolta così?
Mamma, mamma verranno le nevi
Cadranno sull’erba che è spuntata dalla tua voce…



CRONACA

Foglia fattasi uccello di dolore sugli ulivi.
Dal villaggio dinanzi sono usciti i vecchi,
Hanno rincorso gli animi vagabondi nell’aria
Verso la Via Lattea.

Gli uccisi sono stati sistemati in piazza della “DEMOCRAZIA”
Avvolti nelle lenzuola di "oggi sposi".

Ma la stampa ha detto che le elezioni sono state oneste,
libere e corrette. Così anche le TV

Hanno poi lavato via per bene il sangue
Agli ulivi dai tronchi contorti pel dolore.
Eh! Ulivi d’Albania e la vostra maledetta pace!



LA NEVE DI SETTEMBRE

Primavera è andata.
La luna non disegna più tronchi
Neppure nidi abbandonati la notte.

Vorrei farmi settembre
A spargere autunno sui boschi
Ma la neve, da illirica divinità
Ha mutato in marmo il mondo intero
Ché io possa scolpire il mio amore.

O illirica divinità della neve,
Fammi un oracolo per l’amore.

Poesie di N. Hysa

Nerinda Hysa




 POEZI
(Carne in liceita')




Sfogliando questo libro i titoli si riverseranno con celeste fluidità: Mercoledi delle ceneri, Acque, Umiltà per coloro che potranno venire, Aroma di rose, La spiaggia…, Coraggio d’orgoglio, Muri di vita, Catacombe…, Aroma…, Orizzonte, Isole dolenti (Sabrina). Ma anche: I gusti del’uomo soligno, Spiri, Elemosina tra fanghiglie, Tenerezza d’acqua… e così via, finchè non ci troviamo smarriti in un giardino profumante dove il capriccio artistico di madrenatura diviene rito, feretro, destino.
     I personaggi del libro sono persone ideali (virtuali), che pure rivestono anche una parte non indifferente nell’economia dello sentire estetico quatidiano. I giorni della settimana, il cortile, il testamento, la terra, i muri, il cane, le acque, l’anima, il balcone; pergamene, archi; il mare, le porte, il silenzio, le radici, i fiori, la spiaggia, le carte, la notte, la vita, i prati, i nomi, i sogni, la polvere, l’orizzonte, le isole… Sono tutte travi del bastimento su cui naviga  la personale mitologia della poetessa. Ma vi si trova cielo, cielo, cielo… Poi sfilano (esistono) anche persone-personaggi: SABRINA, IL GIACINTO, CAINO, TUNKA (fiore d’oblio), MAIA, DILA, il buon DIO. E sempre cielo, cielo, cielo.
     Il tutto ha luoga tra il cielo e la terra ma ciò non sta a significare per l’io poetico solo che si trova in qualche luogo, ma anche che si trova a essere qualcuno; uno che non vivachia semplicemente tra la terra ed il cielo (convenzioni cosmogoniche), ma è anche fatto di terra e di cielo.  Al quesito “chi sono” viene fornito così un primo riscontro.
     Non ci stupiamo ché non si trova menzionato il sole, dacché è onnipresente. Come la parola “sole” anché “amore” non compare, eppure regna sovrano.
     La poetessa  si è persa nel suo ideale giardino, dove non c’è mai stato il ’97 (l’anno più nero della storia del nostro paese), chiusa in un altro tempo, che non è tempo: ma spazio tra sé e sé: illusoria distanza tra l’inizio e la fine. Qui la poesia funge anche da scudo magico contro il male.
     Il procedimento tecnico di questa poesia sembra avere le radici nella pace: pace con sè e col mondo; camminando coi piedi per terra e cogli occhi rivolti al cielo. Lei ha eternato in questo libro il momento del (non)passaggio dall’infanzia nell’età adulta. Possiede  certamente una verace percezione della realtà, pure sospende ogni principio di gerarchia quandi anche il conflitto in esso o con esso.
     Ella non vorrebbe essere, è! Le interessa come ad ogni bambino solo ciò che la emoziona, non è adulta perché per un adulto l’unica emozione deriva dall’interesse. Essere, vuol dire, essere proiezione di un pensiero creatore compiuto. Questo pensiero compiuto, questa armonia in ritmo di divino silenzio, questo deserto, funge da principio di identità, come fondazione estetica dell’essere. Principio integrativo ed asse identitaria.
     Leggendo le poesie di Nerinda Hysa, si entra in un teatro color miele, dove un unico attore gioca tutti i ruoli: un ragazzo nero con l’anima azzurra. Nero perché ha benconosciuto il sole; azzurro perché non ne è più di un bambino. 

     Cosa lo rende un libro? Cosa lo distingue, ad esempio, da una tempesta ormonale? Forse una forma, un’armonia cocciuta che di quando in quando sacrifica la significazione, per un significare più alto: quello della libertà. Nerinda Hysa poesiede un raro dono, l’unico che ci rende poeti: lei nei suoi componimenti non sembra fare granchè se non lasciar parlare la poesia. Ecco un assaggio:

Acque:  Nei frangenti silenziosi dell’inverno/ son rimaste solo le ostriche dimenticate/ al solco della sabbia nomade // Il mare infangato/ con tono verde nereggiante/ e i coralli senza il bagliore rigoglioso …

   Chi ha frequentato la grande poesia a cavallo dei secoli XIX-XX, si ricorderà de T.S.Eliot o Arthur Rimbaud. Ecco l’Eliot di A.Prufrock Love Song: […] The women to the room come and go/ talking of Michelangelo… Chi è che sta parlando, Eliot o la poesia? La poesia certamente. Se paralasse Eliot, egli ci direbbe semplicemente che le donne vanno e vengono per le stanze, parlando di Michelangelo – che consta in un’immagine  (per quanto scelta) d’impronta borghese. Mentre, se intenderemo con la sensibilità che è la poesia che si apressa a dirlo, avremo:
           The women to the room come and go
           Talking of Michelangelo.
           che è sicuramente una delle imagini più lussuose che la frequentazione della musa ci fornisce. Nel caso in cui fosse il copista Eliot a riferirla, la cifra nel migliore dei casi, sarebbe ironica; mitica è quando lo dice la poesia.
    Uguale, anzi più spiccato quest’argomento in “O saisons, o châteaux“  di Rimbaud:
           O saisons, o châteaux/ quel âme est sans defauts.
     Ora se prendessimo ciò che dice il francese, ci deluderemmo :  O stagioni o castelli, quale anima non ha difetti? Abbiamo a che fare con un scarsa domanda retorica, che impoverendole si rivolge alle stagioni e ai castelli di Francia, dell’Europa e dell’umanità. Che non richiederebbe risposta alcuna, se non negativa. Ma se sentiammo parlare la poesia intesa come canto, noi abbiamo
                 O saisons, o châteaux
                 Quel âme est sans defauts?
     E si sale di livello, perché la domanda è estetica. Credo la differenza conti.

Nel volume “Carne in Liceità” vi affaccerete alla poesia come finestra dell’essere, come speculazione mitica. Ma sono poesie senza dubbio. Alcune poesia dalla Poesia, che è sintesi senza passare per tesi. Questa manciata di liriche consta in immagini della felicità, animate dal sentimento della felicità. La poetessa si è dissolta nel’oggetto del suo amore. La natura è la sua sola cultura.
     Se pur nelle poesie di Nerinda Hysa si percepisce una palpitazione in tutto esclusiva e comunque sia per tutto giovanile e femminile, dove manca qualsiasi cardine storico-geografico (i suoi indirizzi sono pure intuizioni: tempo, spazio), la sua forma tramite sentieri misteriosi trova una sua Maniera, effettiva, alta, nitida. Questa è il caso fantastico in cui la natura porta alla Maniera, quando, perifrasando lo struggente John Keats, il poeta dà poesie naturalmente, come l’albero dà le foglie.   E ci viene da pensare che la poesia non è in fondo una mania, ma è fortuna quindi talento. 
     Le poesie di Neri parlano in modo quasi impalpabile attraverso degli oggetti ideali: mare, cielo, pensatore, spiro, isola, vespro; carne come: chair, leib, flesh. I personaggi principali sono: un cane, i giorni della settimana, la nonna gracile e diletta (lontana e trasparente, senza l’ultima camicia per l’inverno); i fiori, l’unico fiore, la città… come le abbiamo sopraccennate. Nerinda H. è per me la poetessa più interessante della mia generazione, che vive in completo distaco dai mezzi di comucazione per comunicare ai pochi amici un po' di vera magia.
     Per ultimo l’autrice ha smesso di scrivere, ha smesso di essere poetessa, per diventare musa.



La mia sera

 


Questa è la mia sera

profonda

che respira

nel mio silenzio

Il cielo scuro,

teso,

senza stelle

il mare silvestre, intoccabile

e rigoglioso 

La melodia raminga alle sponde

della cervella infastidite

Un aroma di nostalgia

veleggia

nello spazio serale

È una notte

fuggita

che non so da dove arrivi.



Essa mi sta

Di fronte ed io

A lei

Fo fronte

Nelle buie sponde

Degli animi ebri

I nostri contorni

S’elevano uno sull’altro. 

 
-->



Tenerezza d’acqua

Regalatemi il mio fango
i giardini con l’odore del mare
l’alito del cielo
sui tronchi rigogliosi…

Elargitemi tutte queste cose
e sparite
nella linfa di questo tronco…


-->


Spiri


Isole amabili, fiumi
Arieggiati dolcemente
E terre di morte
Strade di cipressi
E campane alate
Piccole voci
E risa di lattante
Sopra il mio fiume…
 

-->

Tigli


Le case con slanci primaverili
      si svegliarono
                dalla fanghiglia forestiera…

Il praticello è libero
così come le farfalle…

Si corre…
Oasi ci attendono
alle soglie del mare…

I bimbi si colmano di fiori
Nei piccoli fusti

Posando coroncine sulle chiome levigate

 

 

-->

La spiaggia


La spiaggia, mandava lenti bagliori,
                             indugiava diabolicamente,
con labbra tratteggiate in blu,
           combusto diamante
                                 blu…

Essa perfidamente
                         mi origlia
                            senza chiedere
                               non fa che spiarmi
                               nei marosi  
                                               oscuri blu…
nei giorni sfinitamente blu…
Un cielo pedante,
sfuggente,
         declinato, sbiadito
              ma essenzialmente sfuggente,
                 dove hanno fine ed iniziano
                    si esecrano brutalmente
                                         pure
                                            iniziano…  


 
-->

Davanti alla virtù…


Scendono piano i vespri sulle foglie
Sulla mia anima questo vespro è tentato
attutito, commovente…,
il mio vespro…

Questo vespro è tutto anima
e profondità…

Sapevi che parlavo ogni notte con la tua stella…?
Che mi lanciavo dalle roccie
Ogni alba?…
Morivo ogni notte, risorgevo
due volte… al tramonto…
e mi seppellivo nella polvere
delle tue ombre?…
Lo sapevi?
Ma sei morto ormai
E sei risorto
Nel mio tramonto…


.................................................................. ......... ..... .... .. .          versione di A. Cani