venerdì 26 luglio 2013

MIGJENI


Storia di una di quelle


Chi non la ricorda? Amico, ma chi non la ricorda? Chiedi di chi parlo? Ma di lei, di una di quelle. E chi sarebbe questa una di quelle? Ma sono tante! Quale giovane (o vecchio) non conosce almeno dieci di loro? Perché loro sono numerose, perché ci sono molti uomini e molto denaro, e quindi di conseguenza devono esserci tanti corpi in vendita… dunque chi è questa donna che è una di quelle? Ma Luke! Luke! Non vi ricordate della Luke? Non credo… voi non me la dite giusta. Vorreste anche negare di conoscerla. Scusatemi, ma qui non va quel famoso detto: chi osa vince. Col pretesto che siete delle persone rispettabili… Ma non abbiate timore, non vi giudicherò, per questo, meno rispettabili! Perché, se non lei, conoscete di sicuro qualcuna delle sue sorelle, ed è come se conosceste Luke. La loro vita è uguale. Tutte si somigliano e tutte vi danno quel che cercate – avanti coi contanti.
E in verità la buona Luke, la misericordiosa Luke (perché lei era una specie di dea) – la desiderata Luke, non diceva di no a nessuno. Venivano gli studenti, senza cattive intenzioni, solo per accompagnare qualche amico, studente pure... Quando aveva finito col primo, Luke chiedeva all’altro: «Quanti lekë hai in tasca?»
«Quattro», rispondeva quello.
«Allora vieni», e lo stesso domandava al secondo, al terzo, al quarto, conducendoli a turno in camera sua. Eppure la sua tariffa era di tre franchi. Ma Luke era più generosa e umana di chi dovrebbe essere per dovere.
Quando gli studenti andavano da lei per la prima volta arrossivano, ma quando tornavano, prima di entrare guardavano a destra e a sinistra per assicurarsi che non li vedesse nessuno, poi volavano attraverso la porta veloci come proiettili. A volte Luke assumeva un contegno serio e li sgridava: «Cosa siete venuti a fare? Cosa cercate? Qui non c’è quello che cercate…»
Gli studenti ci restavano di pietra, balbettavano qualche parola, si guardavano l’un l’altro, rossi in volto, ed erano lì lì per andarsene, quando a un tratto Luke scoppiava in sonora risata e ridendo di cuore, li prendeva per mano tirandoli in camera. Altre volte scoppiavano dei litigi, quando ad esempio uno di loro le baciava il braccio o le accarezzava il viso come ha il diritto di accarezzare la propria donna solo l’uomo che l’ha sposata davanti a un prete o al muezzino. Luke gli diceva allora: «Smettila tamarro, stai fermo», e gli tirava uno schiaffo.
Il giovane non si muoveva, rideva e cercava di afferrarle la mano. Quando, chiacchierando, facevano tardi al caffè, Luke diceva: «Andatevene, che adesso arriveranno i vostri papà», oppure si rivolgeva soltanto al più giovane: «Vattene, adesso, che si è fatto tardi e deve venire tuo padre», e poi scoppiava a ridere. Capitava qualche volta che il giovane se la prendesse e le rispondeva: «Mio padre è una persona di tutto rispetto, non è come me…»
Allora i compagni e Luke ridevano forte per la goffaggine e l’ottusità del giovanotto.
Qualcuno, scherzando, le chiedeva:
«Luke, per amor di Dio, dove hai la tua giacchetta?»
«Vieni a vederla in camera mia.»
«Con grande piacere…»
«Ma i tre franchi li hai?»
«Sì, ho tre lekë.»
«Vattene, pulcino… con tre lekë vuole vedere l’America…»
Ma ho già detto che Luke era più generosa di tanti altri a cui spettava di dovere. Lei accoglieva anche qualche giovane che non guadagnava ancora, soltanto per tre lekë, naturalmente se lui voleva.

Intorno al nome di Lukja e specialmente intorno al suo corpo si era creata una specie di aureola, come intorno alle teste dei santi. Tanto che a qualcuno dispiaceva che la si chiamasse «puttana».
Si tentava dunque, per evitare il senso troppo dispregiativo di quella parola, di sostituirla con altre, equivalenti ma meno crude, come ad esempio «donna problematica», «donnina allegra» e altri nomignoli simili, letti in qualche libro.
E specialmente a uno, che non pronunciava mai parole volgari, dispiaceva che Luke fosse detta prostituta. E non solo lui non la chiamava mai così, ma sentendo tale parola in bocca a qualcun altro provava all’orecchio un senso di fastidio, come quando si sente qualcuno graffiare un piatto con la forchetta. Perciò, quella parola era per lui una violenta dissonanza nell’armoniosa melodia che Luke prometteva. Chiamare Luke in quel modo era come chiamare «donna» il prete soltanto perché indossa una sottana.
Lui diffuse tra i compagni l’uso di appellativi che gli sembravano più adatti a designare quella donna.

Genera la madre terra; genera creature con e senza ispirito; genera e crea come in milioni di anni così in secondi; genera forme che si riscaldano l’una con l’altra per generare a loro volta altre forme facendo continuare il ciclo della vita. E sono la stessa cosa il desiderio del verme e il desiderio dell’uomo. Soltanto il verme non sa, non ha coscienza di generare, mentre l’uomo lo sa, lo comprende, lo sente con le sue energie che si consumano, che devono consumarsi. E in questo, solo in questo, non in qualche altra superiorità immaginaria, ma nella coscienza di trasmettere la vita consiste la differenza tra il verme e l’uomo. Il verme lavora, fa il suo dovere di verme e perpetua la sua specie; l’uomo crea, produce opere di architettura, arte, letteratura e perpetua la specie umana. Perché le energie devono consumarsi, secondo la capacità di ciascun individuo – queste energie che provengono tutte da una stessa sorgente.
La malinconia, gli affanni del pensiero, molte volte anche il nervosismo sono effetto di energia accumulata e che non sa dove espandersi.
E la fantasia dei giovani crea allora aureole di santi attorno al corpo di una donna che si vende, che ha unito l’istinto di generare all’interesse materiale, costretta in modo diretto o indiretto dalla società.
Così, nella camera di Luke si consumavano le energie dei giovani. Del resto se questo non fosse accaduto lì, sarebbe accaduto altrove, in modo innaturale, raffinato, che senso e intelletto hanno inventato.
«Luke, così e così… quanto sono belli i tuoi occhi…» le diceva il giovane. Lei taceva.
«Come hai bello questo… questo… e quest’altro…»
«Finiscila, buffone… Spicciati a terminare la faccenda per cui sei venuto.»
Un’impennata sentimentale nella più cruda intimità, un respiro affannoso, a volte qualche morso, oppure un sospiro o anche qualche manata sul corpo nudo.
A volte anche Luke era assalita da una sconfinata tristezza. Quel qualcosa che noi chiamiamo anima le faceva male; però solo qualche volta, perché se ciò si fosse verificato più spesso il padrone l’avrebbe cacciata via, perché in quei momenti Luke rompeva bicchieri, piatti, specchi, qualunque cosa che si trovasse tra le mani. E in quei momenti non accettava visite. Forse all’anima di Luke dispiaceva che tutte le energie dei giovani si esaurissero invano su di lei? Forse anche lei voleva generare? Come genera la madre terra e ogni altra creatura? Che tristezza provava, quasi un dolore fisico, quando si ricordava di essere una donna che non genera! Le sarebbe persino bastato avere una bambola, un giocattolo a cui dedicarsi per dimenticare tutte quelle brutte ore in cui si vedeva imbrattata di fango!

In un cristallino giorno d’inverno, mentre soffiava la tramontana e il gelo aveva ricoperto tutto di brina, Luke era scesa in città. Fino a quel giorno la sua storia era stata semplice, ma piena di sofferenze, come quella di tutte le donne della montagna. La vita di città da lontano sembrava bella, e in ogni caso lì era possibile guadagnarsi da vivere – specialmente se si era giovani e si godeva di buona salute. Ma quando Luke ebbe il primo aborto vide chiaramente che, per quelle che non hanno di che vivere, tutto ha la stessa importanza. Avrebbe voluto fare qualcosa, ma le dissero:
«Fermati, stupida. Tu sei giovane… puoi guadagnare dei soldi e coi soldi, in città, troverai facilmente un marito, per avere un po’ d’affetto in vecchiaia.»
Luke era abbastanza intelligente da capire in fretta la mentalità della città in cui viveva.
In breve riuscì a raggranellare duecento napoleoni. Coi tre lekë degli studenti e coi tre franchi dei signori, contando e ricontando con la bramosia di un avaro, accumulò quella bella somma di denaro.
Mentre guadagnava, Luke pensava che avrebbe poi trovato un cuore, smarrito come il suo, per aiutarsi a vicenda nella vecchiaia.
Non chiedeva molto. Non desiderava neppure uscire a passeggio sottobraccio al marito, né aspirava a quei diletti cui possono solamente aspirare le donne che si sono sposate ancora in possesso dell’onore e dell’innocenza. Desiderava soltanto trovare rifugio in una casetta e attendere la vecchiaia accanto a un marito con cui scambiare qualche parola, vicino al fuoco, nelle lunghe e fredde notti invernali, e poter così, l’una e l’altro, allontanare la noia della vita.
Questo era l’ardente desiderio di Luke.         
                                                                       
Duecento napoleoni sono duecento vessilli di trionfo sbandierati sulle dolorose vicissitudini della miseria. Sono duecento gridi di vittoria nella lotta della vita, sono duecento urrah!
Coi suoi duecento napoleoni Luke sogna di costruire un castello e di entrarci insieme a un altro cuore, smarrito come il suo.
Là, in silenzio, nel quieto porto di un focolare, avrebbe ricordato le lotte epico-sentimentali del passato. Pace! Pace! Come per una nave che, sbattuta dalle onde del mare e mezza fracassata, giunge infine in porto.
E un giorno Luke passò dalla casa pubblica a una privata. Insieme al marito. Che non era giunto a lei sotto le spoglie di un cavaliere romantico o di un grande spirito desideroso di lenire le sofferenze del mondo – bensì sotto quelle di un calderaio fallito.
«Il nostro mestiere è morto, ormai. Ora sono arrivati i recipienti di zinco e solo nelle vecchie famiglie si trovano ancora utensili di rame, e anche quelli non li usano più, hanno cominciato ad appenderli come oggetti antichi», diceva il calderaio, alzando il bicchiere giallo della rakia. «Forse un buon capitale potrebbe dare nuova vita al mio lavoro, ma dove trovarli questi soldi?» continuava masticando qualcosa. «Se riesci a regolare questa faccenda mi salverai», disse poi al padrone del locale in cui si trovava Luke, mentre pagava il suo bere.
E la faccenda fu regolata. Sposò Luke per potere migliorare, coi soldi di lei, il proprio lavoro.
Lavoro! Lavoro! Perdere la testa per tanto lavoro, così da non saper più cosa fare coi soldi!... pensava il calderaio.
E Luke pensava: un porto tranquillo, un caldo focolare domestico, così come a volte ne ho visti, e l’attesa della vecchiaia. Ma poi, perché non osare sperare anche qualche gioia della vita, visto che lei e il marito sono tra i trenta e i quarant’anni? sognava Luke. Ma i sogni si lacerarono come camicie tessute con tele di ragno, e restò solo la banale crudezza della vita reale. Non provate dunque a realizzare i vostri sogni: lasciate che siano solamente dei sogni e accontentatevi (se potete accontentarvi dei sogni). Altrimenti andrete incontro alla disperazione, com’è successo alla coppia di questa breve storia, senza data documentata.
Dei duecento napoleoni di Luke ne sparirono dapprima cento. Sembrava portati via da un fiume in piena, come i frutti della terra che trascina via quando esce dal suo letto.
«Se ne sono andati perché non sei capace di badare agli affari tuoi. Ti imbrogliano, ti truffano, perché non sai cosa fare», gli diceva la moglie con un tono metà lacrimoso, metà offensivo.
«Sta zitta!» replicava lui con rabbia.
«Sì, sì, sto zitta… e Luke se ne andava in cucina pronta a versare calde lacrime su quei cento napoleoni gettati dalla finestra. «Ah, è inutile», sospirava attizzando il fuoco per preparare il caffè al marito.
Pensava all’avvenire e si vedeva di nuovo in balia dei signori. Ma chi l’ha sfruttata quando era giovane, straziando con gli artigli la sua giovinezza, adesso non saprà più che farsene di lei. Non le farà nemmeno l’elemosina. Chi può fare l’elemosina a chi un tempo è stata una donnaccia? E allora verrà la morte, la morte lenta, per fame; non una morte istantanea, ma una morte lenta che s’infiltra piano piano, giorno per giorno, quella morte di cui muoiono in montagna i suoi fratelli e le sue sorelle.
Quando portò il caffè al marito, che stava alla finestra con lo sguardo perso nel crepuscolo della sera, lui si girò.
«Dammi un napoleone, che mi serve per un affare…»
«Sì, prendi», disse lei e, con rabbia disperata, con un gesto volgare, gli tirò un ceffone.
«Sei abituata a questo. Si vede quel che sei e quel che eri», le disse il marito che in quel momento non aveva voglia di venire alle mani; le sputò addosso.
Era raro che ci si limitasse a questo. Solevano picchiarsi. All’inizio era lui a picchiare la moglie, e lei non replicava. Ma quando incominciò a pestarla con più frequenza, anche Luke tirò fuori la sua forza fisica. E lei era più forte (aveva acquistato quella forza un tempo, allenandosi con le amiche e coi ragazzi in montagna, quando faceva il pastore) perché suo marito era basso e debole e aveva soltanto la spocchia del maschio.
Presto lui cominciò a trascurare la casa. Luke poteva vedere come di giorno in giorno andassero sparendo anche gli altri cento napoleoni, ma sembrava che ormai non se ne disperasse più. Si era abituata, come il malato si abitua alla propria malattia. Qualche volta il marito tornava a casa ubriaco. E allora era inevitabile lo scontro. Si prendevano, lottavano, e quando lui riusciva a metter sotto Luke, le strappava i vestiti e dava sfogo al suo desiderio. Luke allora chiudeva gli occhi e provava terrore della vita, mentre nel ricordo passavano come in parata i visi di tutti quei maschi che aveva sopportato su di sé, e infine il viso scuro e brutto di suo marito, il solo di cui adesso portasse il peso.
Perché, e lo ammettevano anche i vicini, che abitavano nello stesso cortile – lei era fedele al marito, e non voleva aver più nulla a che fare con gli altri uomini. Tanto che avrebbe potuto essere d’esempio persino alle mogli dei vicini.
«Uh! Che vada in malora! Si dà tante arie come se fino a ieri non fosse stata in un… », si sfogavano a volte le donne, con rabbia.
Luke non lavorava più, si serbava fedele al marito – ma lui non portava più un soldo a casa, né per il pranzo né per la cena. I soldi della moglie scorrevano con la velocità di un ruscello montano, e di questo se ne rendeva conto lo stesso marito. Sempre più frequentemente, quando tornava a casa, non trovava niente da mangiare. Sul volto di sua moglie vedeva ormai delinearsi quell’amarezza che la fame e le angosce di una vita misera dipingono sui volti.
«Io me ne vado!»
«Dove vai?»
«A lavorare nei villaggi… Ti manderò i soldi da laggiù…»; «qualche soldo» – voleva dire – ma, e non seppe nemmeno lui perché, non lo disse. Lo vinse un senso d’incertezza, e guardò davanti a sé, non osando fissare in viso Luke, che gli disse: «Vengo con te».
«Con che vivrò, come potrò vivere?» continuava a pensare tra sé, e provava orrore all’idea che sarebbe di nuovo rimasta alla mercé della strada e della gente.

Ed eccoci in un villaggio cui piace farsi chiamare cittadina. È l’ultimo paese raggiungibile in macchina. Dietro, verso est, non ci sono più strade, ma soltanto mulattiere.
La gente finisce qui soltanto a causa del caro vita. (Ma ogni tanto si può vedere anche qualche turista).
Un giorno, mentre l’automobile stava per lasciare questo villaggio cui piace farsi chiamare cittadina, centro di prefettura, arrivò, in mezzo a due gendarmi, una donna con le mani legate.
«Oh! Ma è la Luke!» gridò uno degli uomini assembrati intorno all’automobile.
«Ma da dove viene?»
«Dov’è stata?»
«Perché tra due gendarmi?»
«Ha forse commesso qualche reato?»
«Guarda, le hanno persino legato le mani.»
Luke guardava gli uomini e sorrideva.
«Ma guarda, perché mi hanno legato le mani? Eh? Ih! Ih! Ih!»
«Poveretta!» sospirò una montanara, passando con un carico di legna sulla schiena.
E gli uomini cominciarono a fare giochi di parole, ricordando alla donna impazzita la sua vita.
Lei li guardava con lo sguardo di chi ha perso il senno e sorrideva ancora:
«Ih! Ih! Ih! Perché mi hanno legato le mani? Ih! Ih! Ih!»
Un ragazzo, un impiegato, forse seriamente o forse per scherzare, le offrì un mazzo di fiori appassiti. E lei lo ringraziò sorridendo, con un gesto cerimonioso.
«Grazie, caro signore. Ih! Ih! Ih!» e cercava, con le sue mani legate, di tenere dritti i fiori.
L’automobile partì. E Luke, col volto segnato dalla sofferenza, con gli occhi da folle, con quel suo hi! hi! hi! fu portata in manicomio.
In manicomio, con quel suo ih! hi! narrerà la storia della propria vita.
Ma saranno pochi a comprendere quel suo hi! hi! hi!
Suo marito, il calderaio vagabondo, laggiù in qualche sperduto villaggio di montagna, da dove ha inviato Luke al manicomio, forse in quel momento, lavorando a una saldatura, riderà del destino di quella donnaccia che era sua moglie.
«Grazie a Dio me ne sono liberato.»

Prima traduzione di Jolanda Kodra
Versione curata da Astrit Cani e Michele Bertinotti

Non risulta che questo componimento, sia stato pubblicato sui periodici al tempo in cui Migjeni era convalescente a Torino, quando ebbe modo di pubblicare molte delle sue prose su “Përpjekja shqiptare”. E’ invece certo che fu scritto prima del 31 dicembre 1936. Apparve per la prima volta in volume, a cura di Skendër Luarasi (sposato alla sorella di Migjeni), nel 1954 nel libro “Migjeni – Vepra” (Migjeni – Opera [con Opera in alb. si intende l’opera completa).   



I canti non cantati

Giù nel mio profondo dormono i canti non cantati
che né la sofferenza né la gioa hanno ancora sciolto,
che dormono e aspettano un giorno più beato
per esplodere, e venir cantate senza tema o impaccio.

Giù nel mio profondo i miei canti indugiano...
e sono il vulcano che dorme pacato,
ma quando sarà giorno riverserà tutto
in mille splendidi colori che non muoiono.

Verrà mai il giorno per ridestare i canti?
O forse i secoli si burlano di noi ancora?
No, ! Ecco che la libertà comincia a fiorire
e ne sento dal Sole (allegorico) l’onda.

O miei canti che dormite mie reliquie
che mai avete sfiorato un altro cuore
solo io gioisco di voi come un bambino
io – vostra culla, e vostra tomba pure.

versione di A. Cani