Il monito di Kasëm Trebeshina
Nato nel 1926,
Kasëm Trebeshina fu il più lucido e il più coraggioso tra gli scrittori
albanesi che si sarebbero distinti per la loro dissidenza politica ed
estetica. A differenza di Poradeci, il suo non fu un autosacrificio
firmato con il silenzio, ma pagato con la prigione. In questo gli
assomigliano per destino il Kuteli, e il Rreshpja.
Non è questo il luogo per ripercorrere tutta la sua vita,
ricca di eventi in gran parte drammatici, ma anche di grande impegno nel
lavoro letterario. Ma si vedrà con una toccata e fuga il suo profilo da
dissidente sia nei confronti della politica e della logica del regime,
ma in particolar modo – ciò che a noi interessa –, nei confronti del
realismo socialista.
In Italia, quest’anno è uscito presso un editore
romano [Aracne, 2007], la sua autobiografia Allori secchi, con in appendice il suo
famoso monito chiamato da lui Promemoria.
Questo promemoria datato
1953 di Trebeshina, visto il tempo e visto l’indirizzamento così diretto
alla persona del dittatore, rappresenta un documento senza pari in
tutta la Storia del Comunismo Postbellico nell’Est Europeo. Ma forse è
proprio la sorpresa di questo coraggio così spontaneo, così lucido e
così radicale che lo “salva”. In verità, con questo atto Trebeshina
firma il dramma della sua vita. Da questo momento infatti, cominciano
gli internamenti (in prigione o in manicomio) dello scrittore da parte
dello stato. Reclusioni che finiranno con l’apertura del paese al mondo
civile, dopo la caduta del Muro. Ma Trebeshina evita la pena capitale.
Alcuni intellettuali sostengono che la sua vita fu salvaguardata anche
grazie ai legami importanti che la sua famiglia aveva con l’élite del
paese. Trebeshina scrisse questo promemoria dopo alcune vicissitudini
alla Lega degli Scrittori Albanesi, che lui stesso ci descrive negli
ultimi capitoli della sua autobiografia. Fu questa la goccia che fece
traboccare il vaso. Il giovanissimo scrittore era da poco tornato dalla
Russia. Durante i suoi studi (rimasti incompiuti) a Mosca, era entrato
in collisione con la massa di burocrati che girava negli atenei
dell’allora Leningrado e di Mosca. Già il comitato politico degli
studenti albanesi, aveva cominciato a dargli del pazzo, e a cercare di
internarlo negli ospedali psichiatrici. Vale per Trebeshina, il detto di
Swift: Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui .
Il
’53 fu l’anno della morte di Stalin, e lo stesso Trebeshina non mancò
di dedicargli una elegia. Sincera, stando a quanto lui stesso ci dice.
Anche lui era, per usare la felice espressione di Badiou, infetto dalla
passione del reale. Ma, il motivo della sua presa di posizione così
radicale, riguardava molto di più la letteratura e la politica culturale
che non la mera politica.
Già da anni, il giovanissimo Trebeshina
aveva mostrato apertamente la sua avversione per la via linea politica
seguita del partito. Quello che influenzò decisivamente la stesura del
Promemoria, fu l’arbitraria e totale censura imposta dal partito
all’unica casa editrice che allora esisteva in tutto il paese.
Si
sa che il mio romanzo Rinia e kohës sonë era stato scritto già nel
1948, mentre l’altro romanzo Mbarimi i një mbretërie è del 1951, e
nemmeno va dimenticato che il romanzo Harbutët di Sterjo Spasse era
stato scritto già nel 1948. Allora perché il partito ci mette lo zampino
e proibisce questi scritti più vecchi e dà tempo a Dhimitër S.
Shuteriqi di scrivere nel 1952 il suo romanzo senza nessun valore
Çlirimtarët? Perché il Partito pubblica con un rumore assordante questo
romanzo? Perché mobilita tutti i cavalieri feudali della critica per
pubblicizzarlo come il primo romanzo in albanese?... E non solo come il
primo romanzo, ma come un grande romanzo della Letteratura Albanese
nonostante si sappia che in Albania siano stati scritti dei romanzi
anche prima, e in lingua albanese!... È degno che un intero partito si
occupi di cose del genere?
In verità il problema della
pubblicazione, Trebeshina ce l’ha ancora oggi, dopo più di mezzo
secolo! Quel poco che è stato pubblicato della sua opera, si può leggere
grazie al lavoro di pochi appassionati, come Buzuku nella Kosova e Ars
in Albania. Gli editori ufficiali con i loro comitati di lettura diretti
e composti da editor e lettori vecchia scuola più che altro promuovono
Kadaré e i suoi epigoni. I loro investimenti storici! Buona parte
dell’editoria nella odierna Albania, rimane sotto l’ombrello di ferro di
comunisti & figli.
È merito innegabile di Trebeshina, il fatto
che lui comprese e denunciò subito la portata nefasta del “realismo
socialista”, che per una letteratura (come quella albanese) che si era
appena risollevata (accade durante gli anni ’30) ed entrava nell’epoca
dell’originalità e del professionalismo, questa letteratura di Stato,
era quanto di peggio ci si poteva augurare.
In questo Trebeshina ha come confratello (maggiore) Evgenij Zamjatin, e nessun altro. Entrambi erano stati dei revoluzionari.
Kadaré
ha denunciato apertamente il regime solo dopo la sua fine! Trebeshina
aveva ventisette anni quando scrisse il suo promemoria. Zamjatin
pubblicò il suo articolo “Ho paura” (1920), all’età di 36 anni. Una
decade dopo (1931), scrisse una coraggiosa lettera a Stalin, in seguito
alla quale, grazie soprattutto alla mediazione di Gorkij riuscì a
ottenere il permesso di recarsi all’estero. Aveva già fatto stampare
sempre all’Estero, il suo romanzo più importante, l’antiutopia “Noi” .
All’inizio Zamjatin aveva pensato a un libro di fantascienza. Poi però,
man mano che il libro prendeva corpo si trasformò in una anti-utopia, o
più semplicemente nella descrizione di un non luogo . Il romanzo è noto
soprattutto per avere influenzato in modo decisivo le antiutopie di
Huxley, e quella di Orwell, influenza prolungatasi fino a 1985 di
Burgess.
Vediamo con che nitore, Trebeshina aveva visto:
Tutti
qui alla Lega, in armonia anche con i Suoi rappresentanti, cantano in
modo ripetitivo un inno ad un realismo chiamato “socialista”. Non c’è
bisogno di una particolare intelligenza per arrivare alla conclusione
inevitabile che il realismo o esiste o non esiste: o esiste un
“realismo”, o, dal momento in cui gli viene messa una coda, smette di
esistere. Il realismo o è realismo, o non lo è affatto ed è questa la
ragione per cui questa corrente letteraria già dall’inizio parte in modo
sbagliato e lascia dubbi sul suo futuro di entità mostruosa.
Lo
stesso nome realismo socialista diventa garanzia di storpiature
mostruose che solo ora hanno iniziato ad apparire con tutta la chiarezza
della loro forma e del loro contenuto.
Ma vediamo concretamente, il
contenuto delle opere letterarie del realismo socialista, sia pure di
quelle migliori. Un ingeniere bravo, un ingeniere cattivo ed uno che ha
sbagliato e che si corregge!... Un contadino bravo, uno cattivo ed uno
che si corregge!...
I comunisti sono sempre gli eroi della
situazione, vengono nelle pagine del libri o sulle scene dei nostri
teatri solo per recitarci monologhi dal contenuto eroico!...
Torniamo indietro nella storia e vediamo come andavamo le cose nel tempo di Luigi XIV.
Lì
i ruoli erano divisi nella maniera più precisa. I re ed i principi si
erano assicurati la loro partecipazione nelle opere più serie. Essi si
muovevano solo nelle tragedie, mentre il popolo, insieme a tutti quelli
che erano più in basso dei re e dei principi, aveva il suo posto nelle
opere buffe ed era oggetto di burla, di derisione e di offese di tutti i
tipi.
Ora la mia domanda è questa: è possibile accettare e
considerare giusto che una cosa del genere venga applicata anche nel
secolo ventesimo ed in una società che pretende di essere socialista?
È
chiaro che il realismo socialista ha legami diretti con le idee
dell’assolutismo francese, sia in teoria, sia in pratica. Nonostante ciò
la cosa peggiore non si manifesta nella pratica degli scarabocchi
letterari, che comunque ingiallirebbero nelle vetrine delle librerie e
molto presto verrebbero dimenticati dagli stessi autori. La cosa
peggiore, secondo me, sta nel fatto che si sta organizzando tutto il
lavoro letterario secondo i modelli medievali degli ordini religiosi dei
monaci.
Così, la Lega degli Scrittori è organizzata come un Ordine
di Monaci Medievali. A capo della Lega è un Grande Maestro e tutti sono
obbligati ad ascoltarlo.
Non lo capisce che è un concetto ed azione medievale dividere in questo modo “funzioni” e “privilegi”?
Ma vediamo come ha agito Lei durante questi anni.
Lei
decide al Comitato Centrale che Kolë Jakova è un grande scrittore e
tutti approvano la Sua opinione. La critica grida a squarciagola che
Halili e Hajrija di Kolë Jakova è una grande opera!... Poi è Dhimitër S.
Shuteriqi a guadagnare la Sua attenzioni e i Suoi favori quale
presidente della Lega e quale…
Meglio lasciare stare questi dettagli!...
Gli
scrittori sono cittadini con diritti uguali a tutti gli altri e non è
giusto che debbano rispondere nella maniera più illegale ad una censura
tra le più strane. Se per una ragione o per un’altra, Lei insiste che ci
sia una censura, allora che venga creata come una istituzione e che
eserciti apertamente le sue funzioni. Così sapremmo a chi rispondere e
non avremmo tra i piedi i funzionari del partito che, anche se non sono
competenti, vengono e danno pareri lì dove nessuno glieli chiede.
Qui
non si tratta di uno o due scrittori, di me o di qualcun altro, qui si
vuole mettere in evidenza il fatto che, senza saperlo, state costruendo
una letteratura medievale, con concetti medievali ereditati attraverso
l’assolutismo francese. Una letteratura del genere ci fa tornare
indietro al tempo di Luigi XIV. È tempo che si rinunci a pratiche simili
a quelle che si stanno applicando nella nostra società e che si capisca
una volta per tutte che l’arte, essendo di una natura specifica, non
può essere inclusa nelle forme organizzative del partito. L’arte, anche
se è superstruttura e nasce da una struttura definita, per via della
stessa forma della presentazione, acquisisce valori e forze tali che
stranamente la fanno vivere anche dopo che la struttura che l’ha
partorita è morta!... La Società Greca Antica è morta da tempo, ma le
opere di Omero, Eschilo, Sofocle e degli altri vivranno in eterno. La
stessa cosa possiamo dire anche di Dante.
Da ciò risulta che gli
interventi brutali nelle faccende dell’arte non sono accettabili,
soprattutto da parte di persone che non hanno la minima idea della sua
natura particolare. Bisogna porre fine alle forme monarchiche ed ai
diversi interventi e lasciare tranquilli gli scrittori nella loro
ricerca lungo i sentieri difficili delle vere vie dell’arte. Non è
opportuno che interveniate, aggiungendo alle reali difficoltà nell’arte
altre difficoltà artificiali tramite i vostri funzionari che conoscono
solo la pratica burocratica quotidiana, perché l’arte non può essere un
esercizio ufficiale di azioni pianificate da parte di un centro
plenipotenziario. Non dovete trattare la Lega degli Scrittori
dell’Albania come un prolungamento organizzativo dei vari anelli
organizzato dal Partito del Lavoro dell’Albania.
Zamjatin invece aveva scritto (lo cito da Che cos’è il realismo socialista di Andrej Sinjavskij):
«…può
esserci vera letteratura solo là dove la fanno non degli impiegatucci
d’ordine e sottomessi, ma dei folli, degli eremiti, eretici, sognatori,
ribelli, scettici. E se lo scrittore ha il dovere di essere assennato,
ortodosso, se egli deve essere utile, se non può fustigare tutti come
Swift, se non può irridere tutti con Anatole France, allora non c’è una
letteratura bronzea, ma solo una letteratura cartacea, da giornale che
oggi lo si legge, e domani si usa per avvolgere il sapone del bucato». E
più oltre egli dice: «Ho paura che non avremo un’autentica letteratura
fino a quando non guariremo da questa sorta di nuovo cattolicesimo, che
non meno del vecchio teme ogni parola eretica. E se questo male si
rivela inguaribile, allora ho paura che la letteratura russa ha un solo
futuro: il suo passato ».
I punti di convergenza sono
molti. Dal timore per il futuro della letteratura, alla costatata
concezione medievale della produzione artistica centralizzata. Ma se
la letteratura russa aveva paradossalmente un futuro alle sue spalle,
che danno si recava alla letteratura albanese che solo negli anni ’30
iniziava a prendere un corpo moderno? E non aveva un futuro nel passato
come quella russa? Misurare il danno recato dal diktat estetico del
realismo socialista sembra impossibile. Ma una cosa è certa, quel vuoto
non si riempie con l’opera di nessun Kadaré.Entrambi questi
narratori ricreduti che venivano dalle file dei rivoluzionari, vedevano
l’homo narrator imbavagliato. Poiché l’homo narrator sceglie da solo le
sue incarnazioni, e poiché la sua gamma spazia specialmente tra gli
esseri umani meno conformi alle regole del potere temporale, meno adatti
all’indottrinamento.
Il realismo socialista cercò di condannare la
letteratura ai lavori forzati. E l’homo narrator reagì grazie al
coraggio un po’ folle di Zamjatin e Trebeshina, di Bilal Xhaferri e
Frederik Rreshpja, grazie all’intelligenza di Milan Kundera e il lavoro
degli scrittori nel resto del mondo che era libero. Ma libero dallo
comunismo sovietico, non vuole dire libero dal male.
In qualche modo,
tutti i rappresentanti dell’homo narrator durante il secolo subirono il
potere del male, soffrirono della banalità del male. Così Lorca, così
Benjamin. Così tutti gli altri giusti.
Forse è qui che sta il loro
valore, nel fatto che nonostante tutto il male del Secolo Breve, loro
mantennero accesa la fiamma della narrazione, e fu così che tennero
testa alla barbarie del dispotismo che in modo storicamente inedito
aveva a disposizione una intera industria.
Vissero per raccontarla.
Apportando addirittura nuovi generi e nuove arti. Arricchirono il mondo
della vita, come mai era stato fatto prima. Grazie al loro lavoro,
nonostante le terribili lacerazioni, riuscirono a mantenere in umanità
l’essere umano. Furono quei poeti che Platone venticinque secoli prima
aveva bandito dal governo dello Stato, a curare quel tessuto che la
politica dei misosofi cercò atrocemente di distruggere. Salvarono l’uomo
salvando l’arte. Pensarono innanzitutto all’arte, ma resero la loro
arte vicina ai problemi dell’uomo. Abbellirono con la loro coscienza, la
coscienza malata del Secolo. Senza la loro oper il ventesimo secolo
sarebbe una fossa comune, la tomba delle ideologie, dei carnefici e
delle loro vittime.
Vi fu un altro grande albanese, un francescano,
l’ultimo, a salvaguardare la memoria umano in Albania. Aveva la modestia
di chiamarsi autore non scrittore. Padre Zef Pllumi, 1920-2007. Uscirà
prossimamente nella maggiori lingue europee la sua opera: Rrno vetëm për me tregue, “Vivi solo per raccontarla”.
(A. C.)