lunedì 6 dicembre 2010

Skënder Drini / Eclissi di una luna di pietra / romanzo


I

Ho detto agli attori di lasciare la prova. La pièce stava vacillando, veniva buttata giù senza alcun sentimento e senz’anima. I due grossi ventilatori giravano in vano, come due perdigiorno vinti dall’arsura di quel giorno d’agosto. Non si può combinare niente di serio con il sudore che ti cola a fiumi, con gli attori che sbadigliano e con il pensiero su un altra pièce, come ce l’avevo io. Volevo rifare l’Amleto su una piattaforma molto parti-colare.
Gli attori si sono sparpagliati un po’ dovunque. Io sono salito nella hall. Ho acceso una sigaretta cercando di non pensare a niente, quando mi hanno chiamato dal balcone.
- Vieni un po’ qua, Bert…
- Che c’è? - ho risposto.
- Guarda un po’ il tipo laggiù…
La piazza davanti al teatro era deserta. Ebbi comunque quest’impressione anche se di fronte si trovava un uomo con le mani incrociate, un uomo con un lunga barba, troppo nera e sottile da asceta, che gli arrivava fin su petto. Anche i capelli gli arrivavano fin lì. Fece alcuni passi misurati e giunse in mezzo alla piazza. Alzo la fronte al cielo e rimase così per un pezzo.
- O Dio! Quello ce l’ha con noi… - disse con voce tremula l’attrice che mi aveva chiamato in balcone.
- I capelli, la barba, l’abito… Tutto nero! - sussurrai e nello stesso istante ebbi l’impressione che quella piazza stava diventando sempre più deserta.
- Ce l’ha con noi! Lui ci sta sfidando… - proseguì l’attrice.
Cercai di vedere gli occhi di quell’uomo. Il suo sguardo mi forava la fronte, ma era impossibile vederlo negli occhi. Guardai il suo abito nero, cucito con gusto, la sua cravatta fine, e le scarpe lustrate.
“Ha un’eleganza minacciosa…” non so perché mi venne da pensarlo.
- Sarà qualche straniere, di quelli col delirio della scena…
- Qualcosa mi dice che conosco quest’uomo… - ho detto e sono uscito di corsa verso la hall.
- È sempre lì. Non si schioda! Mi giunse la voce della attrice da dietro. Ma, lui scappò non appena mi vide sulle scalini esterni. Si scostò come se venisse pedinato, buttando dietro la spalla sinistre con un gesto improvviso, la sua lunga barba.
- Alfred! Fred… - feci per chiamarlo, ma me ne pentii. Come avevo fatto ha pensare a quel ragazzo che non vedevo più da anni? Mi prese una paura improvvisa, come se avessi chiamato un morto. Quell’uomo, di Fred, non aveva che la fronte. Grande, ampia, socratica…
Lui mi girò le spalle e io riconobbi anche il passo di Fred, lungo, buttato dall’alto e un po’ forzato? Non ave-va sempre fatto tutto senza voglia?
Lo seguì. Ora lui marciava sul marciapiede aprendosi con le mani la via tra le gente. Non dribblava nessuno, non evitava nessuno, ma li allontanava con la mano tesa, come un ordine, come una minaccia. Nella sua andatura c’era qualcosa di innaturale e di spaventoso, per questo la gente gli sbaragliava la strada. Solo davanti al Bar Europa indugiò a proseguire dritto come un razzo e io sentii pronunciare due parole di fila. La prima fu “il pazzo” e la seconda: “l’Apostolo”. Lo vidi girarsi verso la vetrata del caffè. Dal tavolo dietro il vetro si alzò un giovane di statura alta che gli si fermò davanti. Il mio uomo allungò la mano e puntò con l’indice in direzione dell’altro. Anche l’altro puntò il suo indice. Le loro dita si incontrarono nello stesso punto, poi il mio uomo come se si fosse ricordato di qualcosa, sembrò pentito del gesto e allontanò la mano in fretta.
- Fred… - lo chiamai io a mezza voce, mettendoli una mano sulla spalla. Potevo sbagliarmi, ma non volevo sbagliarmi. Adesso volevo che lui fosse Fred in carne ed ossa.
Lui si scostò senza rispondere. Mi convinsi che era proprio Fred. Un altro mi avrebbe chiesto cosa cercavo, si sarebbe anche stupito.
Lo raggiunsi alla fermata dell’autobus, ma non riuscii a trattenerlo. Lo seguii oltre e lui si fermò da solo, men-tre io stavo pensando di rinunciare.
- Che hai da seguirmi? – mi chiese girandosi a metà verso di me.
- Fred, ma io… - fui colto alla sprovvista e volli pararmici davanti, ma lui me lo impedì e riuscii solo a vederlo di profilo.
- Che vuoi da me? Non lo vedi che sono in piena eclissi? La metà della mia faccia è oscurata… - disse lui con una voce grave, che sembrava uscirgli da dietro la schiena. Ebbi a pensare che lui non si trovasse a metà eclissi, ma in pieno oscuramento. Lo pensai senza pena e senza confusione. A sangue freddo, come una constatazione su un perfetto sconosciuto. Non pensai che fosse così, ma ecco che così lo pensai.
- Quand’è che sei arrivato? - gli chiedi.
- Io non sono arrivato. Io sono sempre stato qua - rispose lui con un tono da predicatore.
- Fisicamente non ti trovavi qui - gli risposi con lo stesso tono.
- E va be’… Così sia…
- Ho avuto nostalgia di te… - cercai di dire con un po’ di calore. Mi era veramente mancato quel ragazzo.
- Sono nel bel mezzo di un’eclissi e non riesco a ridere, ma posso ghignare. Tu credi che ero scappato dal comunismo? Se vuoi saperlo sono scappato dalla mia gente, da te, da gli angeli di guardi, sono scappato da quelli che mi avevano ricoperto di piume… Io volevo proseguire, ma lui mi trattene con la mano, con fare autoritario. Le sue parole erano gravi, ma era ancora più grave, che mi stava trattenendo di spalle. Era umiliante.
- Questa città è molto migliorata. Si è europeizzata… - disse all’improvviso.
- Dove lo vedi? – gli domandai un po’ stravolto.
- Non aggrediscono i pazzi. Al massimo li inseguono, come fai tu.
A poco a poco mi stava facendo arrabbiare. Per quel-lo era come far tendenza, come menar vanto. Lui era stato una specie di narciso, o per dirla meglio avevano cercato di renderlo tale. Avevano agito così i suoi genitori.
- Mi puoi procurare un mantello nero. Te lo pago costi quel che costi…
- Ne vuoi uno col cappuccio? Gli chiesi con una specie di ostilità.
- No! Non voglio coprire la faccia. La gente deve vederla quando ci sarà l’eclissi totale.
Per un attimo ebbi a pensare che era stato proprio Fred che aveva diffuso il panico de cataclisma che sarebbe successo. Sarebbe venuto in seguito ad una eclissi totale, non prevista dagli astronomi. Da tempo la città brulicava di sette. Entrava e uscivano protestanti bianchi, fragili e ingenui, che non avevano esitato a scendere dal Nord in questo paese, dove la religione l’avevano fata saltare in aria con la dinamite. Questi erano morbide gramigne, spezzate in due, dalla debolezza della schiena. Venivano predicatori di Bahai, universali nella loro bontà e nella loro lingua, Testimoni di Jeova, con una mistica turbata… Vi approdavano avventisti, pronti a lavare i piedi a chiunque mettesse piede nella loro setta… Ma quasi tutti avevano scelto un brutto momento, nel momento della resa dei conti… Cosa avrebbero avuto in cambio quelli che avrebbero sposato la setta? Avevano forse diffuso l’idea del cataclisma in cambio di un compenso? Quando sarebbe successo? Non erano stati loro a seminare il panico. Solo Fred lo poteva fare. Poteva essere pazzo, poteva fingersi pazzo. Ma, il peggio era che se avesse continuato così, avrebbe potuto impazzire per davvero.
- Arriverà l’eclissi totale! Arriverà per punirvi, perché mi avete mandato in Europa come un mite agnello e l’Europa mi ha sbranare! – disse lui con rabbia. Ora i suoi occhi si erano accesi e si erano ingranditi. La metà del suo volto a sua volta si era oscurata ancora di più.
Lui lanciò uno sguardo intorno e aspettò che si avvicinasse un bambino che passava con una bottiglia di limonata in mano. Gli estorse la bottiglia. Me lo mise davanti al naso, poi la lasciò cadere a terra con un finta delicatezza, come per mostrarmi che lui non era più quel mite agnello che l’Europa aveva sbranato. La bottiglia andò in mille pezzi col rumore di una bomba, che esplode inaspettata, mentre io notai a malincuore che i passanti non si indignarono minimamente.
- Lo vedi? Nessuno si è disturbato! Fottuti meschini! Mi hanno accettato così come sono, ma non mi accetteranno mai diverso questi cani! - disse lui con asprezza e cercando di cogliere i passanti con un gesto incontrollato della mano.
Fui preso da una specie d’ansia al pensiero che anche il bambino era andato via senza emettere il mini-mo suono. Così anche lui l’aveva accettato come era? I miei occhi si posarono sul margine dei nostri pantaloni unti di limonata. I suoi erano veramente bagnati. Volevo dirgli che l’eleganza non si sposa con la ferocia, ma non ne ebbi il tempo, perché lui in tanto si era allontanato. Girai e mi diressi da dove ero arrivato. A tratti mi sentivo pensieroso e svuotato. Mi parve di aver abbandonato quel uomo al suo destino. Mi sembrò come se mi fossi separato troppo facilmente da lui, come da un passante, di cui si ha solo una impressione istantanea. Al Bar Europa non si era ancora mosso quell’energumeno. Attorno a lui si rideva e si facevano i brindisi con i tambler pieni di cognac. Aspettai per sentire il nome di Fred, ma non potevo captare niente per via del vetro. Lui alzò gli occhi verso me. Mi aveva visto mentre parlavo a Fred. Io non compresi perché allungai il braccio verso lui e toccai il vetro, come aveva fatto Fred. Lui ebbe un attimo di esitazione e poi fece altrettanto. I nostri indici coincisero. Lo vidi negli occhi. Aveva appena sorbito una celia dal famoso regista della città. E se gli avessi parlato? Cambiai idea. Andai al teatro.

lunedì 29 novembre 2010

POESIE DI PRIMO SH.

Primo SHLLAKU


Il festino

Eravamo in pochi
senza molto da dire.
Il sole si era aggiunto al nostro tavolo
fermandosi agli specchi.
Solo la frutta era smangiata dall’ombra.
La mano rincorreva le frange del sole
sino al finire del tavolo monco.

Bevevamo acqua stagna
qualcuno voleva stare in silenzio
e noi ce lo facevamo stare,
finché il sole rientrato gli si posava sulle spalle.

Parlavamo del tempo, delle virgolette, del carboncino e di teatro.
Parlavamo delle gambe di Maria
Ci si accorse che la frutta stava finendo,
si evocò la nuova che sarebbe maturata…
Eravamo in pochi a voler parlare.
Gli altri se ne stavano lì assenti.

Parlavamo del giorno che s’andava accorciando.
Parlavamo della brezza della sera.
Parlavamo dei seni di Maria.

Eravamo in pochi,
e ora nessuno voleva più parlare.
Qualcuno notò che a sto giro
le parole erano finite prima del mangiare.
Il tintinnio sul tavolo era metallico,
gli stuzzicadenti erano tutti da buttare.

Parlavamo di Maria, della sua scomparsa,
fu invocata la sua tomba.
Non so chi ci fece notare, che lei non era più dei nostri.
I piedi s’agitavano sotto il tavolo.
Segno che le chiacchiere
se non proprio già finite,
presto lo sarebbero state.

Parlavamo di Maria,
della sua vita, della fine.
Bevevamo il caffè a lunghe sorsate
e ci domandavamo
se mai ci sarebbe stata un’altra come lei…




Un albero di mimosa in fiore

Non amava la poesia
Amave le mimose.
Non aveva parole,
Ma una mimosa in fiore
Era arrivata a ricordargli
Una nuvola di paradiso vellutata
Che scende sulla terra per raccogliere
Questa nuvola di paradiso vellutata
di un giallo,
giallo,
giallo
sommigliava in tutto e per tutto
a una nuvola di paradiso vellutata
di un velluto,
vellutato,
vellutato.
Non sapeva la lingua per dirlo ma...
Aveva paura della nuvola perché sentiva
freddo
un brivido giallo gli sfiorava la pelle
e diceva,
l'unica volta che ci riusciva
che una mimosa in fiore
gli dava il tremito
e diceva
che non poteva più dire
che temeva
e se temeva
la colpa era
di una mimosa in fiore
di quella nuvola di paradiso vellutata
che scende sulla terra per raccogliere...



Numero Due

Ero folle a credere
Che l’amore viene.
No. L’amore va,
Se ne va sempre.
L’amore non ha un volto.
Ha solo il dorso.
Vive sempre a ritroso,
A volte sul baratro si ferma.
Come la vita.
La piccolo vita, (la vie mineure)
Che perdura.
Questa piccola vita, composta da noi due.
E da tutti gli altri due che ci sono.
Numero due.
Cifra più grande al mondo.
Smisurata.
Mondo conficcato sul petto.
Mondo che vive a ritroso.
Mondo sui dirupi.
Mondo che perdura.
Ero proprio folle a credere
Che l’amore se ne va.
No, l’amore viene.
Si volta e torna indietro.
Chissà?


Fiori sotto la neve

Se tutt’a un tratto
di notte cominciasse a nevicare,
uscirei presto a raccogliere
tutti i fiori
traditi dal bel tempo

Metterei questi fiori dentro l’ovile,
come tante docili pecore
bianche e risolute…,
Stroncate.

E l’ovile sarebbe un grande bouquet
di venti leggeri,
sognanti, raminghi, disperanti.

La morte somiglia a un fiore bianco, è fredda come la neve
che la notte potrebbe all’improvviso cadere
ma è altrettanto simile all’ovile dove le pecore sono fiori
e lei stessa è un bouquet.

Somiglia al vento di ogni fiore mietuto,
che muore e la sua anima diventa profumo.

Se una notte all’improvviso,
cominciasse a nevicare,
uscirei presto per stare
coi fiori sotto la neve anch’io.


Una ferita

Ecco, questo è il mio sangue.
Un attimo fa scorreva nel mio cuore.
Prendilo questo sangue e mettilo sul tuo cielo
come un sole.
Se non va,
mettilo come luna.
Se non va ancora, mettile per quel che è,
come il sangue
che un attimo fa scorreva nel mio cuore
e forse fu lì che vide,
nella rossa oscurità,
gli occhi tuoi
pieni di luce.


La testa del gallo

Nel campo la testa del gallo che cantava.
L’occhio inferiore
su erba rude
che punge come le parole.
L’occhio superiore
rivolto a un cielo vasto
come silenzio.
Il suo sguardo a mo’ di domanda retorica.
Il cielo, l’unica libertà.
Il silenzio, unica scienza.
L’amore, unica dimensione.


Compleanno

Nella poca cenere del nostro focolaio
abbiamo messo quella notte un legno vetusto
Prima di accenderlo
l’abbiamo preso in mano
uno per volta,
Tu hai trovato con il dito il cerchio dell’anno della tua nascita
Io ho trovato con il dito il cerchio dell’anno della mia nascita
Hai messo il dito sul cerchio del tuo anno
Ho messo il dito sul cerchio del mio anno
E siamo rimasti così
Pensierosi
Su la nostra vita…


L’inno della vita

Ho un cuore
che batte di forti desideri
alle porte della gola
Poi mi sdraio
in modo che scorra in me
i più appassionato dei fiumi,
il più puro poiché il più freddo fiume,
i più celeste fiume
Sulle mie labbra solo
la sete è ancora gialla…


Aleksandra

Viaggiano gli autobus nella notte.
Il rumore di uno sembra
quello di una pentola che bolle in silenzio.

Lui ti fa scendere alla mia soglia.

Tu porti le mele,
fiammiferi,
e bussi impaziente.

venerdì 28 maggio 2010

EPIFANIA - POEMA - SH.KELMENDI

EPIFANIA



I.

Sconfinano i piani del sapere all’infinito
E le stelle, granelli di sabbia tra le tue mani
Unte di acqua dorata di silenzio.
In cosa fummo c’è del futuro, e in ciò che siamo
Eternità che scorre in mezzo al cuore.
L’universo ci si nasconde nel petto,
Viviamo sotto il cielo ma il cielo è in noi
E le nuvole, le colline, il bosco dei cantori.
Con lo sguardo rivolto dentro e fuori,
Ascoltiamo e tacciamo parliamo e pensiamo,
Strisciamo e bramiamo e ci felicitiamo
Nella cerchia illusoria del saperci.
A colui che si lascia incantare dal sole all’alba
Scorre tra le dita la nostalgia del Creato, nel vespro
Rimpiange la porta che non apre più da tempo.
Non sta mai fermo un attimo, diverse nuove forme
Con l’impasto dei sensi crea e corre
Anche lui a impastarsi in nuova forma.
Scende e risale l’anfratto della memoria
E si stupisce di cose semplici, l’erba
La pioggia e l’umano sorriso, le formiche
Che trascinano qualche insetto al nido
I cani randagi con i musi tra lordure,
Volti conosciuti eppure mai visti
Nubi che avvolgono e disperdono il primo grido,
L’attimo, la noia il casino e la solitudine,
Infine la libertà che sospinge il pensiero
Per quei cieli che abitiamo solo in sogno.


II.

Si apre la finestra del sapere, si allarga il campo
Delle cose che ignoriamo. E ci alita accanto
L’aroma dell’ignoto che sa farsi presenza,
Un corpo vivo di etere che scaraventa il nostro oggi
Come un bambino il sasso nel fiume degli anni
Che non sappiamo di avere percorso. La si trova
Appoggiata sul davanzale del giorno dirimpetto
All’Universo tessendo corone indorate per lo spazio
E del libro dei miracoli sfoglia il giorno e la notte
Il fruscio delle foglie il volo di un uccello
Astri Soli, terre di confine che sfociano
Come cascate nel cuore, sfoglia la lingua
Degli oggetti, dicono cose che l’uomo capisce
Adagiato al centro del Creato mentre rigetta
Il suo Io come fosse un vecchio straccio e sulla fronte
Nelle rughe gli scorrono i ruscelli del tempo.


III.

Poi sfoglia se stesso, scruta il suo libro,
Il sentiero di passo, le vite nelle mani come arance
Mature, lanciate sul dorso del mare che lo invita al tuffo.
Si scavalca il verbo e nel giardino accanto
Uno strano sole per i fogli d’erba
Sussurra nuovi messaggi alle radici,
L’attimo è vita ma lungo la sordida via
Non è che mosca spiaccicata sotto la suola dell’ubriaco
Che orina la sua realtà all’angolo del muro
Ruttando immagini che non giungono a parola.
Nella storia di ieri inciampa il domani
Per i gironi del sonno, una lucertola
Che ci guizza tra i piedi. Qualcosa si staglia...
Passa l’uomo appagato, sorridendo alla cieca
Alla lama della strada che gli si conficca nel costato
E si sente vittima delle trappole geometriche
Che sciupano le pieghe al coraggio accecato.
La vita è presente. Da parte a parte
Un belvedere di occhi affissi nel visibile
Mi rammenta il mio dovere. Si sbaciucchia fior di labbra
La giovane coppia pomiciona, cicatrici
Sulla nozione corporea della realtà,
Delinea una forma della Alta Presenza
Nel suono squartato dalla letizia di un attimo.


IV.

Si è stati si è e si rimane
Parola che stenta a lasciarsi dire fino in fondo,
Nel “no” senza il dolore del perfetto sacrificio che varca
E varca la porta delle frustrazioni della materia.
Ecco il salice allo “Snack” ha fretta di primavera,
Verdeggia oltre il tempo con radici nella memoria
Che ci detiene. E che voce languida
Sui malori non sbocciati che abbiamo prodigato
Nei fossati dell’impossibilità aerea.
Alte e basse maree della presenza risucchiano
Le barche dei giorni che non ci hanno mai sorretti
Verso approdi che appaiono e scompaiono sulle acque
Come i pesci. E allora giunge morte frugandoci in vano
Le tasche in cerca di briciole di dignità
Spesa in banchetti luminescenti d’arroganza.
C’è troppo rumore. Le campane senza rintocco non hanno
Svegliato il sapere che dorme in sacchi di pelle
E si rotola giù nell’oscuro gorgo della mente.

continua...

venerdì 26 marzo 2010

Romeo Çollaku

Le visite di madama Olimpia



Sono uscito di casa un attimo, giusto per comprare il giornale all'edicola qui di fronte, per cui non c’è stato bisogno di chiudere la porta a chiave. Facevo così ogni domenica mattina: preparavo il caffè, poi, nella veste da letto, uscivo fuori, prendevo il giornale, tornavo, mi bevevo un sorso, accendevo la sigaretta e mi mettevo a tavola per dividere la prima ora del mio giorno tra la lettura e la degustazione del caffè. Mi sembrava come se il mattino della domenica, con questi gesti semplici ma non del tutto privi d’importanza nella vita di uno scapolo, mi liberasse mente e corpo dalla stanchezza di tutta la settimana, indi per cui mi sarebbe stato difficile rinunciare a questa abitudine. Ora, a ragione, qualcuno potrà stupirsi di come sia possibile per l’uomo trovare riposo e tranquillità venendo a sapere dei delitti e degli incidenti del sabato sera, tanto più, da certe righe scritte piene di errori ortografici e logici. Che dire; persino il caffè e la sigaretta sono amare e dannose, però ci tranquillizzano un po’ e il povero uomo non ne può fare a meno.
Fu così pure quella mattina; mi misi a sfogliare il giornale in cortile. Dovrei piuttosto dire, lo sfogliai solo in cortile, mentre camminavo, di fretta. Poiché quando rincasai divenni testimone di una scena non del tutto consueto per le mattine delle mie domeniche. La vecchia madama Olimpia, la vicina della casa di fronte, era seduta a tavola, aveva acceso la radio e stava bevendo il mio caffè. Come se non bastasse, mi aveva anche sfilato due sigarette dal pacchetto; una la stava fumando, l’altra l’aveva dimenticata sul posacenere. Si voltò e mi rinfacciò quel suo sguardo sperduto, poi smise la sigaretta, avvicinò la testa bianca alla radio – il fazzoletto nero le era scivolato sulle spalle – e, con la poi anche quella del volume. Allora mi diedi una mossa, corsi verso lei e tolsi le batteria alla radio: da noi, al piano terreno, nell'appartamento, di fronte alla mia porta, abitavano da ottobre due studentesse che a quanto avevo capito, la domenica dormivano fino a mezzogiorno. Credo che la vecchia madama Olimpia un po’ se la prese, dico “credo” perché i suoi occhi erano privi di espressione da mesi, mentre la sua bocca era chiusa, pareva per sempre. Accese la terza sigaretta, mentre le altre due bruciavano sul posacenere, e tornò di nuovo al caffè. Stavo a guardarla; non sapevo come comportarmi con lei. Se le parlavo, non mi capiva. E poi cosa potevo dirle? Ultimamente, aveva perduto completamente la ragione. A volte rincasava tardi, per mezzanotte o l’una, e la trovavo così, curva e coi capelli scompigliati intenta ad aggirarsi da un capo al altro del cortile. Mi ero appena addormentato che venivo svegliato dai suoi singulti e dai suoi passi, per i corridoi del pianerottolo. Spesso, salivo a chiamare suo nipote, Stefo, e questi, dopo avermi ringraziato, scendeva giù e chissà come faceva, ma riusciva a dissuaderla e a farla rincasare. Nell'ultimo piano dell’edificio di due piani viveva col marito e i figli, madama Leni, la sorella della vecchia Olimpia, anche se uno non l’avrebbe mai detto. La casa credo fosse attestata alla Leni, perché, da quando mi trovavo ad abitarla – circa sei anni – pagavo sempre a lei l’affitto. Mi sembra gente per bene, anche se non c’avrei messo la mano sul fuoco: anche la vecchia Olimpia, all’inzio, mi aveva dato l’impressione della donna cordiale e di buon cuore, e addirittura con la sua veste tradizionale mi ricordava le vecchie della mia patria natia. Ma, la signora Leni, perché mai non doveva essere buona con me? – io le davo centomila lekë al mese, ogni mese.
La vecchia madama Olimpia finì il caffè e rovesciò la tazza, abitudine di cui manco la sclerosi, a quanto sembrava, riusciva a privarla. Rovesciò la tazza e con una mano tremolante, vi fece sopra il segno della croce. Poi s’alzo e aprì il frigo. Richiuse il frigo e aprì l’armadio. Richiuse pure l’armadio e aprì il rubinetto. Lo lasciò aperto e io andai a chiuderlo. Non sapevo come comportarmi con lei. Potevo salire a chiamate Stefo, ma temevo a ragione che rientrando, avrei trovato le bottiglie dell’olio d’oliva, i barattoli di miele, nonché la bottiglia di vino il tutto mandatomi dai miei, assieme al televisore, rotte in mille pezzi. Questa vecchia, nonostante il fatto che all'inizio, quando ci conoscemmo, io l’avevo rispettata, onorata e addirittura bene voluta come fosse la mia vera nonna, mostrava uno strano desiderio: farmi del male. In quei primi tempi, quando ci conoscemmo, quando io mi trasferì qui con le mie tre cose, era tutto un’altra cosa; potrei dire che in pochi giorni eravamo diventati amici. Allora, la vecchia madama Olimpia, pur avendo superato gli ottant'anni, era ancora a posto, non era stata toccata dalla sclerosi. Un po’ la sentivo lamentarsi del cuore, dei reumatismi, delle gambe che non la reggevano più, ma era palese che più che sentire qualche vero malore, si compiaceva. Quei giorni, io, la domenica mattina, ma anche nel pomeriggio, usavo prendere il caffè in giardino, sotto la pergola, dove messer Aleks e madama Leni, illuminati dal loro gusto pittoresco, avevano avuto la brillante idea di collocarvi un tavolo con due sedie, il tutto in plastica. Preparavo il caffè pure per madama Olimpia e ci mettevamo lì fuori, discorrevamo per un pezzo, e ce la passavamo alla bel e meglio. Che la passavamo bene, perché la vecchia – a quei tempi, all'inizio – mi raccontava storie piacevoli, magari un po’ dolorose, ma belle a prescindere, clip nostalgici dalla sua infanzia e dalla giovinezza. Mi descriveva madama Leni e lei stessa, quando erano entrambe piccole e giocavano sotto la pergola, mi parlava di Sofocle, il padre, che vedeva boza, ma “i tempi cambiarono” e fu travolto da un treno; mi raccontava degli anni della guerra, quando incollavano l’orecchio alla radio, mentre, fuori, il paese rombava dagli spari; mi sussurrava sotto voce della fortuna che non ebbe a sposarsi, perché “mirava in alto”, perché “tutti gli uomini, a quei tempi, erano dei mascalzoni” eccetera, eccetera. E, le sere, quando tornavo a casa non esitava a bussare alla mia porta e io, senza aprire, sapevo che era lei, con un piatto nelle mani e non di rado, pure due. “Ho preparato”, diceva “melanzane ripiene, pure la sfogliata con ricotta, tavë kosi, turchi, peperoni fritti, musata, funghi, latte di rondine”. E, di quando in quando, pure io le mandavo qualche pacchetto di sigarette, qualche scatola di caffè o dei pasticcini. Tutto ciò all'inizio, perché dopo, dopo che ci conoscemmo in un certo modo, i nostri rapporti cambiarono in peggio. Dopo aver creato confidenza con me, la vecchia Olimpia cambiò il tema delle sue confessioni e, il più delle volte con le lacrime agli occhi, prese a lamentarsi con me di madama Leni, di messer Aleks, di Stefo e di sua moglie Alma, di Sofocle, l’altro nipote a cui avevano dato il nome del padre, di Maria, la nipote, che veniva molto di rado i cui figli non degnavano di avvicinarlesi, del genere, “quel mascalzone!”, che fumava le sue sigarette e non le porgeva mai il pacchetto. Abbassava la voce e mi chiedeva: «Dimmelo tu, perché non posso restare anch’io, insieme a loro, al secondo piano? Eh, dimmi, perché? Sono sua sorella – perché, dimmelo?» e mi raccontava certe interminabili storie di litigi o di permalosità espresse e inespresse. Ogni volta che mi aveva parlato della sua infanzia, l’avevo sentita con piacere, ma questo tipo di lamenti lo malsoportavo. Che me fregava a me, se la figlia minore di Maria, quando la baciava madama Olimpia, prendeva a piangere e si asciugava il viso con il dorso della mano? Cambiavo conversazione, ma dopo un attimo, lei la faceva ritornare a prima, a Sofocle, a cui avevano dato il nome del padre, al giovane Sofo che si era comprato una Renault, ma «la sua mente non pensava mai, di prendere la zia a farle fare un giro verso il mercatone, la stazione ferroviaria, affinché vedesse lei pure se e come era cambiata la città». Una volta, due volte: non ce la facevo più; non mi andava di sentire le chiacchiere su famiglie con cui a parte gli scambi economici non mi ci legava nient’altro. Le feci capire che a me, non solo non m’interessavano queste cose, ma ne ero anche infastidito, non m’andava giù il caffé, quando sentivo, da un momento all'altro, di messer Aleks a cui puzzavano le scarpe, e di Stefo che veniva raggirato dalla moglie. Un giorno glielo dissi apertamente. Ma la vecchia Olimpia non sembrava capire: proprio perché non voleva! Lei abbisognava di un sacco o di una fossa, dove poter scaricare le pene e i tormenti di tutta una vita e, in questo caso, il sacco o la fossa ero io. Allora, visto che non mi piaceva fare da sacco né da fossa e soprattutto visto che non mi piaceva immischiarmi nelle faccende altrui, cominciai ad evitarla. Il caffé non lo bevevo più in cortile e, quando sentivo bussare alla porta, non aprivo, fingendo di star dormendo, anche se, a volte, mi veniva l’acquolina dall’odore del pesce alla griglia o delle bistecche di vitello. Non le portavo più banane, ne sigarette o pasticcini, nemmeno fragole che come soleva dire le facevano bene per i reumatismi. Addirittura, prima di uscire, origliava con cura il cortile dalla finestra e, solo dopo che si allontanava, partivo al lavoro. Entro un periodo molto breve, staccammo quasi ogni legame con l’un l’altro e arrivò il giorno in cui ci limitavamo a scambiarci un buongiorno o buonasera. Allora, la vecchia Olimpia divenne un’altra persona. Allora, le nacque quel desiderio di farmi del male. Sul parvaz della finestra, da fuori, avevo messo un vaso di giacinti e un altro di basilico, piantati da Silva, nei giorni quando stavamo insieme e la invitavo ogni tanto da me: un mattino trovai tutto strappato, ma non pensai alla vecchia Olimpia. Una mattina, in pieno inverno, trovai i vetri della finestra rotti: rattoppai con del cellofan e fui preso dai dubbi. Un giorno trovai sulla mia porta la scritta «farabutto», scritta – vi stupirete – con passata di pomodoro, non ci poteva essere una prova più sicura di questa per me. Pur tuttavia non le dissi niente: mi fingevo all'ignaro dei fatti. Ci incontravamo in corridoi o in cortile, ma io non la salutavo per primo. Anche lei, aspettava il mio saluto: così, tanto semplicemente, giungemmo a non rivolgerci più la parola. Piantai di nuovo basilico e giacinti e, di nuovo, un mattino trovai tutto strappato. Misi i vetri nuovi sulla finestra e, di nuovo, un pomeriggio li trovai in frantumi. Una sera, ritrovai sulla mia porta la parola «farabutto», scritta stavolta con ricotta o yogurt. Fui costretto a lamentarmene da madama Leni.
- Che possiamo farci? – mi rispose lei, - è malata, a perso il senno.
E infatti, poco a poco, la vecchia Olimpia stava perdendo la sua ragione; non parlava più a nessuno. Cominciò ad aggirarsi, dal corridoio in cortile e dal cortile al corridoi, con i cappelli sparpagliati sul foulard e con gli occhi ora smarriti ora sgranati, giorno e notte. Non riconosceva più nessuno, non sapeva dove si trovava, in che tempo e perché.
Così la trovai anche quella domenica mattina, quando, lasciando la porta aperta, uscii due minuti fino al edicola di fronte, per comprarmi il giornale. Aveva confuso, a quanto pare, porta e forse nessuno dei pochi mobili della mia stanza le era sembrato sconosciuto; forse, grazie alla dimenticanza, le sembrava che era tutto roba sua, sua la casa, e suo il mondo. Volevo parlarle ma non ci riuscivo. Una mano invisibile mi aveva tappato la bocca, come direbbero gli scrittori. Non potevo parlarle, non conoscendo bene la sua malattia avevo paura potesse prendere uno spavento e stare male. Non potevo parlarle, forse, dalla mia testardaggine: da quando mi aveva rotto i vetri e strappato i fiori, mi ero giurato di non rivolgerle più la parola; da allora ebbi l’impressione che era una vecchia malvagia, cuore nero, demonica, il male in persona. Non potevo neanche andare al piano di sopra a chiamare Stefo: era sicuro che nel frattempo lei mi avrebbe rotto le ciotole di miele, le bottiglie d’olio, il televisore, la radio, tutti i vetri delle finestre e avrebbe scribacchiato col fondo di caffè su qualche parete la parola «farabutto» che amava tanto, e non sarebbe stato strano, se per chiudere, avesse strappato pure il mio giornale comprato di fresco.
Accese un’altra sigaretta e, mentre s’aggirava per la stanza, il foulard le scivolò del tutto dalla testa e cadete sul pavimento, davanti ai miei piedi. Gli diedi, con rabbia un calcio e si perse, sotto il letto o non so dove. Continuava a girare per la stanza; guardava di qua e di là, con quel suo sguardo smarrito; guardava le pareti, le finestre, i mobili; cercava, a quanto sembrava, di che farmi del male, con la sua inguaribile cattiveria. Andò ad accendere il televisore. Dopo un po’ lo spense e aprì le finestre. Richiuse le finestre e questa volta, aprì il rubinetto. Lo lasciò aperto e io corsi a richiuderlo. Allora, lei, sempre tentennando, andò a sdraiarsi nel mio letto.
Quando tornai, in compagnia di Stefo e a messer Aleks, lei si era addormentata. La svegliammo e, all'istante lei scoppiò in un urlo lungo come un ululato. Non so donde le uscì quel urlo, poiché la sua bocca come di consueto a quei tempi, era fermamente serrata. Dalle orecchie? Dal naso? – non so. Pure madama Leni scese giù, e dopo avermi chiesto scusa,
- È malata, - mi disse, - è fuori di senno, soffre di sclerosi, e ancora, - ci scusaste, ci scusaste, lei non ci deve certo tali importuni.
Le misero le mani sotto le ascelle e la sollevarono. Mentre la spingevano alla porta, lei voltò la testa un’altra volta e mi vide con quella sua espressione smarrita, senza senso, senza espressione. Uscirono. Sopra il tavolo, rimase la tazza capovolta e sul posacenere, quattro chicche di sigaretta, come madama Olimpia le aveva lasciate.
Questo fu prima che lei morisse.

Racconto di Sh. Kelmendi

L’ UOMO DELLA NOTTE



Viaggiavo nottetempo.
Nella locanda zozza donde gli ubriachi hanno preso ad allontanarsi uno per uno, chi sulle proprie gambe traballanti come altri sorretti o trascinati dai compagni, vi è questo vecchio che m’osserva con un fastidio palese, mentre le pile di tazze e bicchieri da lavare mi permettono di vedergli solo il ciuffo dei capelli canuti sulla stretta fronte. Ecco anche due topi stanchi che giacciono dentro due buchi: gli occhi. Il barista. Aspetta che me ne vada. Anche la notte m’aspetta lì fuori. Sento l’obbligo d’avvicinarmi al banco per dire a quell’uomo che una volta scolato il bicchiere di anice, il medesimo che mi sta porgendo, e messo al braccio la bisaccia, quella verde che si trova sul terzo tavolo, vicino a quelle sedia rovesciata, mi toccherà viaggiare tre ore per la notte. Tre ore rotte che Dio voglia non mi diventino quattro, cinque, sette, e specialmente non un’eternità. Il vecchio capisce che non sto dicendo queste parole per giustificare il mio tardo avvento, ma semplicemente per trovare qualcuno che accetti di farsi unico testimone di una marcia eroica. Allunga un po’ la testa, mi squadra cogli occhi della testa ai piedi e sempre con lo stesso fastidio dice, chi se ne frega. Poi sembra dispiacersi e aggiunge che, da tutto ciò non gli dice niente di nuovo e che per tutti si può considerare un fatto del tutto normale. Anzi so di gente che ha viaggiato di notte per tutta la vita. Naturalmente non si esclude qualche isola baluginante di luce, ma è la notte quella che ha prevalso.
Sono giovane e queste parole dette così gratuitamente e con un tono per niente paterno dalla bocca di un barista di periferia, al quale per di più è venuto a mancare da tempo qualsiasi piacere nel comunicare, mi fanno profonda impressione. Quell’uomo avvilito viveva al baratro. Provo invano a ricordargli che non parlo della notte, ma della mia notte, perché subito mi risponde che ad ognuno basta la propria di notte. Non mi sentii affatto consolato, e ora, dopo tanti anni, penso che quel vecchio scorbutico – Dio accolga la sua anima, sempre che sia esistito -, aveva veramente ragione. Rammento il suo volto oscuro e mi spiace di non avervi scorto la notte che gli aveva impregnato l’intero essere, ma ciò che penso oggi non vale che per oggi. E credetemi, in questo istante, proprio in questo istante, una serie di verità mi si occultano tutt’intorno mentre scivolo verso il mare dell’ignoto. Pago. Il barista mi consiglia di partire comunque, anche se ho paura, se no essa, la paura, rimarrà eternamente una questione aperta per me. Gli dico che non è la prima volta che viaggio nella notte, invece lui risponde fulmineo che per nessuna cosa esiste una seconda volta. Mi metto in cammino sotto la luce soffusa di una luna che ha iniziato a esimersi a poco a poco dall’impazienza e di non illuminare altri che se stessa oramai. Le luci dell’umile borgata rimangono alle spalle ed ecco, dopo un po’ somigliano ad un ricordo che si spegne pian piano senza poter conservare un granché dalla primordiale forma della sensazione. In istanti così mi persuado di essere nato, vissuto, di vivere e di dover morire da solo tra le grinfia della notte. Schiavo suo. La strada serpeggia, sale e scende attraverso una selva sconfinata che poggia indosso a tartarughe giganti. Colline a perdita d’occhio. Scricchiolano pel autunno inoltrato gli alberi semispogli, mentre un turbine di vento senza rotta definibile agita scaraventami in faccia folle di foglie secche. Frusciano a fianco alla strada i roveti che assomigliano a chiazze ulcerose di rimorsi della coscienza, e mi sembra come se brulicassero di bestie invisibili e per di più ignote. S’odono le grida dei volatili nottambuli e i latrati lontani di cani e lupi. Non ho paura. Non perché sono coraggioso, ma perché ancora non mi è toccato di trovarmi faccia a faccia con la paura da poter riconoscerne la forma. Sono in un’età in cui se non mi spaventa il visibile, niente mi fa paura. Però m’inquieto. M’inquieto perché durante questa marcia cieca nella notte, anche se la strada è molto ampia, da potervici scambiare due camion pesanti, di quelli che trasportano i tronchi, potrebbe scapparmi il piede e così finirei nell’oscuro abisso. Non voglio neanche pensare come finirei. Poiché non lo so, poiché non ho ancora capito se la morte esiste. Ma mi sento in qualche modo abbandonato: è l’ora in cui tutti sono rinchiusi nelle dimore sicure, calde e anzitutto illuminate, mentre io sono costretto a viaggiare nella notte, anche se, si capisce, non correrò alcun pericolo. Scorgo lassù la pallida fascia di una luce che sgorga da uno di quei camion remoti, e che ogni tanto giunge fino a me. Non si ode alcun boato, ma immagino che sia uno di quei camion tardivi che avanzano indolententi, col quale so di dovermi trovare tra non più di un’ora. Incomincio ad aspettare con impazienza l’incontro con questo camion, anche se so che il bene che mi porterà la sua luce, è probabile che si riduca solo con l’illuminazione momentanea dell’oscurità che mi circonda, oscurità che poi rischierà di divenire ancora più nefasta. Dopo un po’ noto che la mia speranza ha una ragione forte: non è poco neanche lo sfavillio di una fiammifero per uno che viaggia nell’infinita oscurità. La notte si è aggravata e nella sua pancia tracolla l’angoscia. Vorrei essere stanco, per poi riposare un attimo vicino a qualche roveto misterioso e accogliente, ma non ho tempo. La stanchezza è un lusso che non mi sono ancora meritato. Alla fine di questa strada o di questa notte mi attende una scodella di brodo caldo, un letto e sopratutto una lampada, una lampada con l’aiuto della quale mi sentirò un po’ sereno dentro un ambiente riconoscibile. Si capisce, nella vita ci possono essere pure molte altre cose che regalano piacere, ma lor signori mi scuseranno, se per il momento non me ne ricordo.
Quando per la prima volta la gente seppe che sarei stato costretto a viaggiare nella notte, dissero poveraccio, è cosi giovane. Si dice che da allora sono passati ventidue anni rotti, ma in uno stato di calma, quando avrò vicino un piatto di brodo caldo, un letto e sopratutto una lampada che mi offrirà un ambiente riconoscibile, cercherò di convincervi che non è passato più di un anno. Una cosa è certa: il tempo, il tempo sta tirando brutti scherzi, a me o a loro. In tal caso cerco di scoprire che valore potrebbe avere un anno della mia piccola vita nell’oceano del tempo, figurarsi poi una scodella di brodo caldo, un letto e una lampada…. Mi ricordo di essere piccolo, terribilmente e ignominiosamente piccolo davanti alla notte infinita dove mi pare che siano affogate lo spazio e il tempo. Notte e strada, entrambe interminabili. L’unica cosa di cui penosamente intuisco la fine, è la mia stessa vita che trasale ogni volta che dall’altro emisfero della consapevolezza soffia la mia prossima assenza, assenza che potrebbe venire causata dallo scivolare sul ciglio della strada, da qualche lupo affamato che gironzola nei dintorni, o dall’improvvisa aggressione di un uomo armato che mi ha teso un’imboscata per punirmi di colpe che non mi ricordo. Questo momento può essere adesso, qui, per me.
Colori… Uno ad uno, compaiono e scompaiono di fila tutti i colori che compongono lo spettro della luce. Cerco di fonderli tutti in uno solo per imbastire la luce che ho così a lungo sognato, ma i miei sforzi si risolvono regolarmente in sonori fiaschi. I colori vanno e vengono uno dopo l’altro, guidati da una fredda indifferenza. In un certo istante il miracolo in cui oramai non spero più, avviene: i colori prendono a scomparire tutti di fila e uno dopo l’altro, proprio com’erano apparsi, e a breve, da quel rosario scintillante non rimane che un unico colore, il bianco circonfuso d’una triste aureola nera. Attendo ansiosa che anche il nero si dissolva, mentre il bianco invada lo spazio intero. Ma questo spazio, dove siamo contenuti sia io che la chiazza bianca, rimane nero, spaventoso e quel che è peggio non inafferrabile. Il nero non è altro che la notte donde io cammino, mentre il bianco solo una chiazza che si trova poco più di cento metri distante da me, vicino a una chiazza sospesa sulla terra a mo’ d’uomo.. Ed è un orrore completo che m’invade di volata le punta delle dita del piede fino ai pelli della nuca che mi si rizzano. Rimango di stucco sul posto mentre gli occhi, anche se non chiusi, non vedono nulla. Mi sembra che la cosa bianca sia una delle forme della mia assenza che purtroppo non è ascritta a quella serie d’inventive che ho cogitato sulla morte. Non avrei mai pensato che la morte, la mia morte potesse avere colore bianco. Si capisce che quella chiazza che balugina nel buio non è lì per segnare la fine della mia strada, ma la mia stessa fine. Inutile, dacché trovandosi vicine durante tutti questi miei viaggi nella notte, la fine della mia strada e la mia stessa fine sono diventate la stessa cosa, fondendosi l’una all’altra così diventando conio unico e inscindibile. Indietreggio di un passo, due, poi di tanti passi e nell’impossibilità di correre, prendo la via del ritorno calzando i passi altrui. Perché, in quei momenti non c’è qualcosa che sia veramente mia, a parte la paura che mi martella il petto con un ritmo bestiale.
Sono completamente disorientato e con lo sguardo morto dentro le pupille. Sto tornando. Incredibile, ma sto tornando da dove sono partito alcune ore, giorni o mesi prima… Non sembra una questione di propositi, ma una questione di piedi che si muovono in modo involontario. L’eco dei passi, se ve n’era uno per davvero, tutt’a un tratto cessa. Rimango in mezzo alla strada, con una spalla che vede dalla strada del ritorno e con l’altra che vede dalla strada dell’arrivo. Devo raccogliermi e pensare molto seriamente riguardo il senso di movimento, perché c’è poco da fare, in un senso o nell’altro si deve andare. Il come e dove, ora come ora mi sembra una questione di second’ordine.
Ho l’impressione, certa oggi dopo venti anni inoltrati, che la decisione di far ritorno è stata presa da qualche parte in una delle viscere sconosciute della mente e della notte. Se oramai mi sono fermato, è stato perché tutt’a un tratto ha ripreso a funzionarmi la consapevolezza che credeva morta. Fin dal suo primo gesto, mi fece capire che la strada percorsa era oramai dieci volte più grande del cammino rimasto. E adesso? Se tornassi troverei la città dormiente ed è difficile che si trovi qualche porta, disposta ad aprirsi per me. Sulle strade senza vita illuminate da qualche lampada spenta, risuoneranno i miei soli passi, che vagheranno per la città e per la vita con la sensazione della paura per ogni cosa bianca che baluginerà nel buio in tutta realtà e secondo una logica incontestabile. Poi mi si da a vedere nel futuro: la mia vita assomiglia a un scantinato buio dove sono ammucchiati detriti a non finire di strade non percorse, o lasciate a metà semplicemente e per la sola causa che in un momento dato del viaggio per la notte, qualcosa di bianco è baluginato alla svolta di una strada… Tralascio ogni dubbio, e convinto che il danno causato dalla paura, è sempre meno accettabile del danno causato dal coraggio, avanzo sempre cercando di cogitare la misura del mio coraggio, dal timore di non potere poi giustificare nessuno dei passi che faccio senza direzione. Quando mi sento sicuro di aver superato la postazione della chiazza bianca, la paura mi si ripresenta, anche se non le si vedono bene i contorni perché mescolata a una curiosità veemente.
Di scatto giro la testa…
Ho camminato un po’ troppo. Il mistero della volta che ho appena passato, indugia nella forma di una chiazza bianca che tremola palpitante nell’oscurità. Cerco di convincermi che si tratti di questa o quella cosa, ma anche se sul palco della mia fantasia sfilano tutti gli oggetti bianchi che conosco, continuo a girare nella volta delle vaghe supposizioni. Avanzo. Mi rammento di nuovo della cose buone che offre la vita, ma oramai esse non terminano a una scodella di brodo caldo, al letto confortevole dove posso riposare le mie ossa stanche dalle lunghe peregrinazioni, e sopratutto a una lampada che mi offra un ambiente riconoscibile.
Il viaggio non finisce qui. Ho percorso nuove geografie nello spazio e nel tempo, e sempre, qua e là, mi è parsa dinnanzi e lo fa tuttora, una chiazza bianca, come la manifestazione di una forza oscura che scaturendo da me, cerca di ostacolarmi in questi miei infiniti viaggi, di cui ignorerò sempre la meta.

sabato 6 marzo 2010

Poesie di A. Cani

Astrit Cani

La tela

un pelo di freddo sulla pelle
morbido ma tenace molto
che mi dipinge tutto color solitudine


Nato e cresciuto in Paradiso

di Satana
si sa che è nato e cresciuto
in paradiso
ma un giorno si è ribellato al creatore
e Questi non lo ha ucciso
sarebbe stato commettere un male?
ha forse riconosciuto in lui parte della sua opera?
fatto sta che non lo ha ucciso
così rendendolo più forte
per lo meno per un certo tempo e in un certo spazio




La mosca di burro (The butter fly)

la bolla che ribolle
in sogni di sapone
il nido ancestrale di tutte le forme
il bagno di tutti gli arsi asfalti di città
la mosca di burro
ampolla di spine rovinose
bosco di ombre fangose
bacino d’acque vorticose

lima sinuosa
peluria sontuosa
farfalla nera minacciosa

inceneritore di sogni e mondi
uovo per soli uomini sodi

eterna origine animale
buco tra dodici anelli che agogna la freccia regale
là dove ha termine e inizio
il supplizio chiamato supplizio


Lettera d'amore


Porvami che esisti
E io ti sposero'.


Snack bar Mediterran

i vetri oscurati
entro quattro salici
sono piovuti gli anni della mia prima giovinezza
tra mille sigarette e qualche poesia

questo era il microclima, per farsi su un sorriso per la vita
quella era la coppa delle promesse da bere d’un fiato
il resto del dramma erano schegge
otturanti i denti antichi del destino

scorrazzavano i cani del vento inodori
e condividevamo il massimo splendore
di quei giorni munifici, di partenze e arrivi
di ore dorate scandite da esili lancette nere quiete fango
e amori

lo Snack è il Cimbali dei miei ricordi
ancora, formulata con magia
mi bolle in testa aromatica la frase
in nome di Kafka, bevi quel caffè!

sabato 6 febbraio 2010

Poesie di M. Camaj

MARTIN CAMAJ




L'UOMO DA SOLO E CON ALTRI
(alcune poesie, nella traduzione di A. Cani)




C'è una vecchia città
-Palermo 1968 -

C'è una vecchia città sorta presto
sui meandri delle rocce
e non ha del mare il sentore.
Ha occhi stanchi, rivolti
in basso
bruciati dal sole disciolto
in acque salmastre come sangue.

C'è questa vecchia città
condita di palmizi nuovi al cielo
e un brusio di umane voci
senza eco, ai quattro venti, cordoglio
prolungato dacché è sorta
a oggi.



Elegia prima

Quando io sarò sfinito
dalle fatiche degli anni ripidi come rocce
non stare o Taze in pena, per me
steso su tavole di morte
agnello pronto al sacrificio.
Lascia che le vecchie piangano su me quel giorno
i loro morti, di vecchia data.

Un'ultima volontà, o donna:
quando morì mio padre, abbattemmo due buoi
per saziare gli affamati e le formiche dei campi
con briciole di pane.
Ma io morirò tra gente sempre
sazia,
per questo nei miei pranzi offrite
solo caffé amaro.


Due generazioni

Mio padre era
uomo di triste figura
albero d'ulivo senza foglie
ma con frutti neri ad ogni ramo.

Il suo verbo riecheggiava in noi
fragorosamente
quasi fosse l'ululato di un lupo
famelico solo tra rocce.

Mio fratello ebbe
a prendere il suo posto,
mio fratello scalzo
- vento baio all'orizzonte.

Soffia al fuoco in autunno
a pieni polmoni
e ogni scintilla gli dà un figlio maschio.



Racconto semplice

Vorrei volare sulle alpi coi piccioni
dissi a mio fratello il sanguigno.
"Non è cosa per noi!"
Non m'hai compreso, gli dissi, voglio darmi allo studio.
"Il latino – disse – non fa per noi:
impara prima la lingua del serpente!"

Mio fratello il sanguigno
a sei anni sapeva piantare al volo la lesina
in terra,
a dieci – tre spanne sulla testa il coltello
nel tronco novello. Una volta scrutato
la mia mente ne convenne e disse:
"Siam due mani per una sola testa: spartiamoci i doveri:
a me la spada – a te la penna!"

Prose brevi di R. Dibra

Ridvan DIBRA



alcune prose tratte da "Stina e Ujkut"(UNA STAGIONE DA LUPI)








Amore di volpe

Assuefatto dalle donne della sua specie (vale a dire le lupe), il lupo ebbe brama di fare all’amore con una volpe. Incrociò lei in un mite crepuscolo di primavera inoltrata.
- Voglio fare all’amore con te, - disse il lupo.
- Questo è impossibile, - disse la volpe, - inaccettabile e irrealizzabile.
Pareva sincera nelle sue parole. Per contro il lupo fremeva dalla voglia.
- Io voglio fare all’amore con te, con le buone o con le cattive, - disse il lupo. - Che vengano pure sconvolte tutte le leggi dell’universo. Per un lupo non c’è niente d’impossibile.
La furbona, che ultimamente (più che mai) si fidava del proprio acume, fiutò subito che quella richiesta assurda celava un goffo tentativo d’inganno, uno sforzo per nulla sveglio di coprire il vero scopo del lupo che stava cercando di sfamarsi con della fresca carne volpina.
- Accetto, - disse la volpe. - ma che non sia qui. Troviamo un posto più adatto.
Si misero in cammino. Senza che avessero fatto neanche dieci passi, si udirono le grida del lupo: era caduto in una trappola mortale.
- Per una volpe tutto è possibile, - disse la volpe.
- Vi sbagliavate signorina. Io volevo soltanto fare all’amore con lei. Nessun altra cosa era mia intenzione, - disse il lupo.
Sembrava molto sincero in questa parole. Come sono le ultime parole; quelle che avvengono sul letto di morte.


Cose e persone

Era meraviglioso il tempo in cui tu ripartivi le persone semplicemente in buoni e cattivi. Ai buoni ti avvicinavi come ad amici, mentre dai cattivi ti tenevi alla larga.
Così ti avevano consigliato i libri, le esperienze, i tuoi cari; in una parola, tutti quelli che ci tenevano affinché tu avessi una formazione la più normale possibile. Tutto d’un tratto, una serata autunnale d’ottone, qualcosa si sconvolse in fondo alla tua anima: nella frazione di un secondo tu scorgesti abissi e precipizi infimi di cui non avevi idea alcuna, spalancarsi.
Dopodiché sentisti l’esigenza di fare una nuova ripartizione della gente che ti circondava. Nel primo gruppo mettesti coloro che valevano per qualcosa (vale a dire quelli che lasciavano delle tracce su questo mondo), invece nel secondo tutti quelli che sorvolano la propria vita come la brezza di marzo sulla neve congelata, senza lasciare alcuna traccia su di essa i quali, naturalmente, costituiscono di gran lunga la maggioranza.
Passò il tempo e gli squarci della tua anima presero a chiudersi. Qua e là si potevano scorgere i segni dello guarigione come le tendini dopo un’operazione di scarso successo, mentre a tratti erano rimaste tracce cineree di fuliggine, come quella che lascia il lampo quando colpisce, per poi esiliarsi in cielo. Dopo di ciò tu rivedesti l’esigenza di aggiornare la classifica della gente che ti circonda, ma nel mentre sentisti che tal cosa non era facile da realizzare: gli squarci dell’anima non s’erano chiusi del tutto (e a quanto sembrava a farlo ci sarebbe riuscita solo la morte), mentre il cervello per il momento, si trovava impreparato a siffatte analisi.
Fu allora che decidesti di lasciare la gente alla loro pace sacrosanta e occuparti dello studio e della classificazione delle cose che ti circondavano.


La solitudine del sole


Il sole gira nello spiedo della solitudine come un agnello sgozzato. La solitudine lo fa vecchio. Lo cuoce vivo. Il fatto che dalla sua combustione viene poi resa possibile la vita di milioni di mondi e di persone un po’ lo consola, ma non al punto da annientare quei serpenti di fuoco e d’ego che la solitudine dà alla luce in ogni momento. Ancora il fatto che ci sono tanti altri soli come lui che girano solitarî e soffrono, non lo consola come dovrebbe.
La diceria diffusa un miliardo d’anni prima e che continua a circolare a tutt’oggi per la galassia, secondo la quale è lui stesso a cercarsi la solitudine usando ogni minuto le orride protuberanze per allontanare ogni possibile visitatore, questa diceria dunque, o per meglio questo pregiudizio, gli causa solo un amaro sorriso cinico.
Non sanno che lui molto sovente, in particolare le notti di autunno e d’inverno, usa tenere rinchiuse nel suo petto quelle orride protuberanze (rischiando di collassare a sua volta), strutto dal desiderio di venir visitato da chicchessia. Anche da qualche pianeta del tutto minore e di seconda mano, come la Luna ad esempio.
O anche dalla Terra.


Lo stagno

Lo stagno è sempre lo stagno; non fa che dare vita ogni minuto a esseri vili. Ti seduce e ti invita misterioso come tutte le cose stagnanti e tu, pur avendo una ingente esperienza circa i falsi amici e falsi profeti, avvolti da una membrana menzognera si segretezza e di mistero, nonostante ciò dunque, assecondi quella cattiva abitudine che hanno avuto pure i tuoi bisnonni, proprio l’abitudine di provare da soli tutto.
Tardi, molto tardi quando tu finalmente sei caduto preda di una delle innumerevoli trappole che escogita ogni minuto lo stagno, ti sovvieni di certi segni premonitori evidenti, come lo sono state ad esempio le punture delle zanzare, l’ansimo fangoso dei canneti oppure i morsi velenosi dei serpenti, segni che hai sottovalutato con molta superficialità, lasciandoti sedurre come un bambino da qualche garofano raro e di scon-volgente bellezza, che solo lui poteva generare: lo Stagno.
Proprio quando ti poni e poni ad altri la semplice domanda: giustificheranno mai l’esistenza dello stagno questi rari e strabilianti garofani che egli solo da?
E come sempre in questi casi, ricevi due risposte.
Una è negativa.
Positiva l’altra.


Le esperienze

Il lunedì lui esce presto di casa e senza fare manco dieci metri si trova davanti ai piedi una buona decina di cuccioletti appena nati che, or ora cominciano a scorrazzare davanti a lui. Il sole promette bene, la gente vicina é bonaria, mentre i cuccioli – terribilmente belli e innocenti.
A mezzogiorno, quando ha fatto solo metà percorso, vede che i cuccioli davanti ai suoi piedi sono cresciuti spudoratamente in fretta e lo mordicchiano di volta in volta. Il sole scotta, la gente intorno sembra furba, mentre i cani – odiosi e diabolici.
La sera rincasa tardi. A poca distanza dall’entrata vede davanti ai suoi piedi una buona decina di vecchie cagne che, subito prendono a morderlo finché possono. Il sole è ormai tramontato da tempo, la gente ha fatto in fretta a rintanarsi ciascuno nella propria dimora, mentre le cagne sembra che abbiano preso la rabbia e non si capisce come possono essere loro i cuccioletti della mattina.
A mezzanotte inoltrata, lui si corica, convinto di essersi liberato una volta per tutte dalle cagne, quando a un tratto sente il loro guaito pestifero dietro la porta.
Allora lui comincia a domandarsi se ha fatto bene a fermasi coi cuccioli quella mattina.


Il mistero del cespuglio


Tu sei nato nella giungla, ci sei dentro da una vita e ormai puoi vantarti di conoscerla bene. La tua conoscenza è stata ulteriormente migliorata dagli innumerevoli racconti di genitori, nonni e bisnonni, che, come te, sono nati nella giungla. Inoltre, tu hai letto un’intera biblioteca di libri dedicati alla giungla.
Grazie a questa conoscenza, lei non ha più misteri per te. Ma questo fatto, vale a dire la completa decostruzione della giungla, a te, stranamente, non causa nessunissima gioia. Anzi. Provi un odio e una gelosia da monomaniaco nei confronti di tutti quelli (genitori, nonni, bisnonni, figli, esperienza) che ti hanno aiutato in questo processo lungo e faticoso di demistificazione.
E parti verso un dove, poggiando forte sulla tua tristezza come sul bastone. Mentre passi per i sentieri ormai arcinoti della giungla (schivando magistralmente le trappole che conosci come le tue tasche), all’improvviso giunge a te la vista in un angolo di un cespuglio modesto, con piante e radici ingarbugliate come le pene di un’anima malata. E sempre all’improvviso ti rammenti che nessuno si è mai ricordato di parlarti del piccolo cespuglio.
Né genitori né bisnonni, né i libri né le esperienze. Niente e nessuno. Forse non sapevano della sua esistenza e tu sei il primo a scorgerla. La tua fantasia stanca dalla lunga ricerca e senza trovare misteri, ne viene subito eccitata. Tremolante dall’impazienza, t’avventi verso il cespuglio come verso il tuo indefinito destino e ringrazi di tutto cuore la giungla per aver serbato a te un’incognita, un mistero, una chance di scoperta riservata a te e a te solo. Con le mani tremanti dalla febbre della tanto agognata scoperta apri il ventre del cespuglio e ti ritrovi davanti… un riccio. Un riccio vecchio come il mondo.
Allora tu ti lasci cadere in ginocchio e piangi come un bambino.
Mentre dietro le spalle odi come sogghignano i bisnonni.


La pelle della serpe

La serpe si spogliò della sua pelle, l’appese sul ramo essiccato del melo, e se ne allontanò senza rimorso alcuno.
La volpe passò di lì, si fermò per qualche istante, ma giudicò la pelle senza valore per lei.
Il lupo udì qualcosa circa una pelle di serpe appesa da qualche parte, ma la mancanza del sangue in essa lo lasciò completamente indifferente.
L’uomo si prese la pelle della serpe, e ne fece un paio di meravigliosi guanti per le sue innocenti mani bianche.


Bisnipoti e bisnonni

Ehi, uomo, che di giorno in giorno completi il tuo guardaroba, organizzi anno dopo anno sfilate di moda e, con questa naturale cura verso il tuo corpo, testimoni sempre di più che poche cose ti legano ormai al tuo bisnonno pigrone e sottoevoluto – la scimmia.
Ebbene, uomo, non t’accorgi (o fai finta) di un fatto alquanto strano: ogni volta che incontra il suo bisnipote (vale a dire, proprio te, uomo) la scimmia cerca di coprirsi soltanto la faccia, noncurante delle altre parti del corpo che, se le trova, naturalmente, scoperte.
Interessante. Non credi?


La relazione

L’emerito professore, insignito di vari titolo e gradi scientifici, membro onorario di una buona decina tra le più note accademie del mondo, è stato invitato a tenere una relazione nell’ambito di una conferenza internazionale che ha per tema il futuro della società umana. Per tutta la durata della settimana in cui il professore si preparò a riferire, godete di un meraviglioso stato d’animo e di salute (o vice-versa), come anche di una splendida armonia con la consorte, come anche di una perfetta intesa coi figli come anche di un notevole incremento del redito personale e famigliare. In simili circostanze, nel discorso del emerito professore, l’avvenire della società umana venivo presentato come luminoso e di ottime prospettive.
Un giorno prima di consegnare il discorso scritto alle orecchie del mondo, il professore sentì un generale indebolimento fisico e spirituale (o vice-versa), da fonti affidabili seppe che la moglie lo tradiva col suo assistente, uno dei suoi figli abbandonò la casa per dei motivi del tutto assurdi, mentre il redito personale e famigliare subì un sorprendete calo.
In simili circostanze, l’emerito professore strappò il primo discorso che gli sembrò inventato di sana pianta e per niente realista, e entro quello stesso giorno ne compilò uno nuovo dove il futuro della società umana si prospettava buio e senza via d’uscita.


L’uomo delle nevi

Lo yeti lasciò i deserti di giaccio, le trote congelate e le eterne bufere partendo alla volta della città che, da lontano, sembrava una torcia infuocata. Gli fu riservata un’accoglienza a dir poco regale: pranzi a banchetti senza posa, conferenze stampa a non finire e incontri con diverse personalità importanti, curiosi d’ogni sorta, giornalisti e reporter che non lo lasciavano un minuto in pace.
Proprio adesso cominciò la tragedia dell’uomo delle nevi: dalla perdita della solitudine.
L’indomani lo yeti lasciò la città che ardeva come una torcia infuocata e partì alla volta dei deserti di ghiaccio, delle trote congelate e delle eterne bufere.


Al circo

Sotto il fischio ritmico della frusta che porta in mano (nella sinistra) il domatore-uomo, gli animali corrono in cerchio attorno all’arena, testimoniando senza tregua la totale alterazione del loro comportamento e la riuscita manomissione della loro indole. Fuori hanno smesso come una pelliccia non necessaria l’orgoglio e la fierezza. O perlomeno loro (gli animali) così credono. Perché se si mostrassero un po’ più attenti (questi animali) potrebbero vedere come le loro pellicce sono indossate dal pubblico che applaude lì intorno. D’altra parte, il pubblico che crede in una totale trasformazione degli animali sull’arena, se si mostrasse un po’ più attento, potrebbe scorgere una strana brama nei loro occhi. Quella di fare cambio di posto. E di ruolo.


Il camino

Ora persino lui ha ammesso di essere fuori moda. Questa triste verità gli è dimostrata dalla fuliggine nera e fitta che gli ha intasato i polmoni, rischiando di spezzargli del tutto il fiato. Il suo padrone lo accende di rado, molto di rado: una volta in dieci anni. Anche allora sola quando càpitano ospiti famosi. Anche allora solo d’estate. Il che significa che fa così solo per snobismo, senza sentire nessun bisogno del calore liberato dal suo camino, pur tuttavia gioisce come un bambino del fuoco che gli viene acceso sul grembo. Al che, poverino, osa nutrire una piccola speranza. Ma, ahinoi, le lingue delle fiamme (come scherni) non fanno più che leccare quelle mura di pietra, senza essere in grado di graffiare minimamente la fuliggine nera e fitta. Allora il camino si ritira nella sua solitudine e mira con odio e disprezzo palese i suoi rivali vincitori: quelle sottospecie di caloriferi e stufe elettriche che si moltiplicano di giorno in giorni come conigli.
È raro, Dio com’è raro!, che qualche serpente di fulmine abbandoni il cielo, trovi la stretta la gola del camini e bruci incenerendo la fuliggine nera e fitta. Allora e allora soltanto il camino si sente vivo e la sua secolare fuliggine sposando il lampo lancia certe scintille che stupiscono il mondo intero.
Solo che questo avviene una volta in un millennio.


Il compromesso

In una mattino consueto, normale fino al disgusto, tu hai costatato con tema che i tuoi piedi non si fidavano più del suolo, proprio di quel suolo a cui finora avevano creduto ciecamente, poggiandovisi senza posa giorno e notte. Il raggiungimento di questa conclusione ti ha letteralmente sconvolto.
Hai fatto anche un'altra prova. Un’altra. Altre dieci. Altre mille. Ma è stato inutile: le gambe non se l’intendevano più una con l’altra: la sinistra andava avanti, la destra – indietro, la sinistra attaccava a destra, mentre la destra – a sinistra; tu ti stancavi, sudavi tra faticosi tentativi di ritornare ai vecchi tempi, alle tue giornate normali, ma sentivi che oramai era tutto inutile: i millenari equilibri erano crollati, il tuo secolare patto con la terra era rotto una volta per tutte: tu avevi dimenticato di camminare e ogni volta che cercavi di realizzare una cosa simile, somiglia-vi più alla scimmia che non all’uomo, della cui famiglia avevi l’onore di far parte. In definitiva: tu avevi dimenticato di camminare! Senza dubbio la dimenticanza più tragica e più assurda che può capitare aquesta gente che non si è ancora decisa chi chiamare finalmente bisnonno: Adamo (Adem) o La Scimmia (la bestia).
Dopo tale nefasto accorgimento, ti sei ricordato dei cieli, degli spazi, dei voli. Ti sei con-vinto che anche gli uccelli che adesso volano, hanno dapprima dimenticato di camminare. Ma poi ti sei ricordato che il volo da almeno cent’anni è fuori moda. Allora tu, se pur nemico dichiarato dei compromessi di ogni genere, sei stato costretto a farne uno ma questo giusto per garantire la tua esistenza.
Il nocciolo del compromesso è questo: quando cammini, dichiarare agli altri di star volando (così che loro quelli non notino i tuoi terribili difetti in cammino), e quando voli, dichiarar loro di star camminando (così che quelli non ti considerino sgarbato).
Ora come ora, dopo siffatto compromesso, non te la passi poi tanto male.


Il pozzo

È alquanto raro che qualcuno si ricordi di lui e le sue acque mefitiche somigliano ad un’anima deteriorata. Brulicano di ranocchi e serpi d’ogni sorta che pendono per le pietre ammuffite, come gli intenti egoistici nell’anima. La carrucola sopra d’esso è arrugginita e a volte, quando tira vento forte da terre lontane, emette un cigolio come da pianto o da gemito.
Una volta, in un autunno mite e solare, una ragazza disgustata da l’acqua pura delle sorgenti che bevevano tutte le sue amiche, decise di colmare la sua sete con l’acqua sta-gnante del pozzo e, come ce lo si poteva aspettare, s’ammalò: i segni della caducità le si presentarono di colpo.
Imprevisto fu però l’immediato schiarirsi delle acque del pozzo, e la scomparsa di tutte quelle serpi che vi brulicavano da secoli.


La cima e l’abisso

Tu eri deciso a scendere nell’oscuro abisso pericolante per poi risalire in cima alla cima. La tua gente, proprio la gente a te più vicina e più cara, vale a dire i genitori, la sorella, la moglie (la figlia era ancora piccola per intromettersi nei tuoi affari), considerarono te pazzo e pericolosa la tua idea; così che ti contrastarono con tutte le loro forze.
Mentre la gente a te più lontana, vale a dire amici e compagni, compresero e invidiarono la tua idea, ma anche loro ti contrastarono, considerandoti impreparato per una simile impre-sa. Tu all’inizio, cercasti di persuadere la gente a te più prossima che la discesa nell’abisso non doveva essere considerata come una pazzia, anche se a prima vista poteva non sembrare così normale. Loro non compresero affatto e cercarono di trattenerti con la forza.
In simili circostanze tu non avevi altra scelta che uccidere la gente a te più vicina, vale a dire i genitori, la sorella, e la moglie (la figlia era ancora piccola per essere coinvolta in queste cose), e partire per la tua strada. La gente a te più lontana, vale a dire amici e compagni, cercarono di impedirtelo con congegni e sotterfugi d’ogni sorta. In simili circostanze tu non avevi altra scelta che ferirli e voltar loro le spalle.
…Ora sei spuntato dall’abisso e ti accingi a raggiungere la cima.
Sei sicuro che non appena arrivato in cima alla cima, la gente a te più prossima risusci-terà.
Ma temi che le ferite inferte ad amici e compagni diverranno mortali.

versione di A. Cani