venerdì 26 marzo 2010

Racconto di Sh. Kelmendi

L’ UOMO DELLA NOTTE



Viaggiavo nottetempo.
Nella locanda zozza donde gli ubriachi hanno preso ad allontanarsi uno per uno, chi sulle proprie gambe traballanti come altri sorretti o trascinati dai compagni, vi è questo vecchio che m’osserva con un fastidio palese, mentre le pile di tazze e bicchieri da lavare mi permettono di vedergli solo il ciuffo dei capelli canuti sulla stretta fronte. Ecco anche due topi stanchi che giacciono dentro due buchi: gli occhi. Il barista. Aspetta che me ne vada. Anche la notte m’aspetta lì fuori. Sento l’obbligo d’avvicinarmi al banco per dire a quell’uomo che una volta scolato il bicchiere di anice, il medesimo che mi sta porgendo, e messo al braccio la bisaccia, quella verde che si trova sul terzo tavolo, vicino a quelle sedia rovesciata, mi toccherà viaggiare tre ore per la notte. Tre ore rotte che Dio voglia non mi diventino quattro, cinque, sette, e specialmente non un’eternità. Il vecchio capisce che non sto dicendo queste parole per giustificare il mio tardo avvento, ma semplicemente per trovare qualcuno che accetti di farsi unico testimone di una marcia eroica. Allunga un po’ la testa, mi squadra cogli occhi della testa ai piedi e sempre con lo stesso fastidio dice, chi se ne frega. Poi sembra dispiacersi e aggiunge che, da tutto ciò non gli dice niente di nuovo e che per tutti si può considerare un fatto del tutto normale. Anzi so di gente che ha viaggiato di notte per tutta la vita. Naturalmente non si esclude qualche isola baluginante di luce, ma è la notte quella che ha prevalso.
Sono giovane e queste parole dette così gratuitamente e con un tono per niente paterno dalla bocca di un barista di periferia, al quale per di più è venuto a mancare da tempo qualsiasi piacere nel comunicare, mi fanno profonda impressione. Quell’uomo avvilito viveva al baratro. Provo invano a ricordargli che non parlo della notte, ma della mia notte, perché subito mi risponde che ad ognuno basta la propria di notte. Non mi sentii affatto consolato, e ora, dopo tanti anni, penso che quel vecchio scorbutico – Dio accolga la sua anima, sempre che sia esistito -, aveva veramente ragione. Rammento il suo volto oscuro e mi spiace di non avervi scorto la notte che gli aveva impregnato l’intero essere, ma ciò che penso oggi non vale che per oggi. E credetemi, in questo istante, proprio in questo istante, una serie di verità mi si occultano tutt’intorno mentre scivolo verso il mare dell’ignoto. Pago. Il barista mi consiglia di partire comunque, anche se ho paura, se no essa, la paura, rimarrà eternamente una questione aperta per me. Gli dico che non è la prima volta che viaggio nella notte, invece lui risponde fulmineo che per nessuna cosa esiste una seconda volta. Mi metto in cammino sotto la luce soffusa di una luna che ha iniziato a esimersi a poco a poco dall’impazienza e di non illuminare altri che se stessa oramai. Le luci dell’umile borgata rimangono alle spalle ed ecco, dopo un po’ somigliano ad un ricordo che si spegne pian piano senza poter conservare un granché dalla primordiale forma della sensazione. In istanti così mi persuado di essere nato, vissuto, di vivere e di dover morire da solo tra le grinfia della notte. Schiavo suo. La strada serpeggia, sale e scende attraverso una selva sconfinata che poggia indosso a tartarughe giganti. Colline a perdita d’occhio. Scricchiolano pel autunno inoltrato gli alberi semispogli, mentre un turbine di vento senza rotta definibile agita scaraventami in faccia folle di foglie secche. Frusciano a fianco alla strada i roveti che assomigliano a chiazze ulcerose di rimorsi della coscienza, e mi sembra come se brulicassero di bestie invisibili e per di più ignote. S’odono le grida dei volatili nottambuli e i latrati lontani di cani e lupi. Non ho paura. Non perché sono coraggioso, ma perché ancora non mi è toccato di trovarmi faccia a faccia con la paura da poter riconoscerne la forma. Sono in un’età in cui se non mi spaventa il visibile, niente mi fa paura. Però m’inquieto. M’inquieto perché durante questa marcia cieca nella notte, anche se la strada è molto ampia, da potervici scambiare due camion pesanti, di quelli che trasportano i tronchi, potrebbe scapparmi il piede e così finirei nell’oscuro abisso. Non voglio neanche pensare come finirei. Poiché non lo so, poiché non ho ancora capito se la morte esiste. Ma mi sento in qualche modo abbandonato: è l’ora in cui tutti sono rinchiusi nelle dimore sicure, calde e anzitutto illuminate, mentre io sono costretto a viaggiare nella notte, anche se, si capisce, non correrò alcun pericolo. Scorgo lassù la pallida fascia di una luce che sgorga da uno di quei camion remoti, e che ogni tanto giunge fino a me. Non si ode alcun boato, ma immagino che sia uno di quei camion tardivi che avanzano indolententi, col quale so di dovermi trovare tra non più di un’ora. Incomincio ad aspettare con impazienza l’incontro con questo camion, anche se so che il bene che mi porterà la sua luce, è probabile che si riduca solo con l’illuminazione momentanea dell’oscurità che mi circonda, oscurità che poi rischierà di divenire ancora più nefasta. Dopo un po’ noto che la mia speranza ha una ragione forte: non è poco neanche lo sfavillio di una fiammifero per uno che viaggia nell’infinita oscurità. La notte si è aggravata e nella sua pancia tracolla l’angoscia. Vorrei essere stanco, per poi riposare un attimo vicino a qualche roveto misterioso e accogliente, ma non ho tempo. La stanchezza è un lusso che non mi sono ancora meritato. Alla fine di questa strada o di questa notte mi attende una scodella di brodo caldo, un letto e sopratutto una lampada, una lampada con l’aiuto della quale mi sentirò un po’ sereno dentro un ambiente riconoscibile. Si capisce, nella vita ci possono essere pure molte altre cose che regalano piacere, ma lor signori mi scuseranno, se per il momento non me ne ricordo.
Quando per la prima volta la gente seppe che sarei stato costretto a viaggiare nella notte, dissero poveraccio, è cosi giovane. Si dice che da allora sono passati ventidue anni rotti, ma in uno stato di calma, quando avrò vicino un piatto di brodo caldo, un letto e sopratutto una lampada che mi offrirà un ambiente riconoscibile, cercherò di convincervi che non è passato più di un anno. Una cosa è certa: il tempo, il tempo sta tirando brutti scherzi, a me o a loro. In tal caso cerco di scoprire che valore potrebbe avere un anno della mia piccola vita nell’oceano del tempo, figurarsi poi una scodella di brodo caldo, un letto e una lampada…. Mi ricordo di essere piccolo, terribilmente e ignominiosamente piccolo davanti alla notte infinita dove mi pare che siano affogate lo spazio e il tempo. Notte e strada, entrambe interminabili. L’unica cosa di cui penosamente intuisco la fine, è la mia stessa vita che trasale ogni volta che dall’altro emisfero della consapevolezza soffia la mia prossima assenza, assenza che potrebbe venire causata dallo scivolare sul ciglio della strada, da qualche lupo affamato che gironzola nei dintorni, o dall’improvvisa aggressione di un uomo armato che mi ha teso un’imboscata per punirmi di colpe che non mi ricordo. Questo momento può essere adesso, qui, per me.
Colori… Uno ad uno, compaiono e scompaiono di fila tutti i colori che compongono lo spettro della luce. Cerco di fonderli tutti in uno solo per imbastire la luce che ho così a lungo sognato, ma i miei sforzi si risolvono regolarmente in sonori fiaschi. I colori vanno e vengono uno dopo l’altro, guidati da una fredda indifferenza. In un certo istante il miracolo in cui oramai non spero più, avviene: i colori prendono a scomparire tutti di fila e uno dopo l’altro, proprio com’erano apparsi, e a breve, da quel rosario scintillante non rimane che un unico colore, il bianco circonfuso d’una triste aureola nera. Attendo ansiosa che anche il nero si dissolva, mentre il bianco invada lo spazio intero. Ma questo spazio, dove siamo contenuti sia io che la chiazza bianca, rimane nero, spaventoso e quel che è peggio non inafferrabile. Il nero non è altro che la notte donde io cammino, mentre il bianco solo una chiazza che si trova poco più di cento metri distante da me, vicino a una chiazza sospesa sulla terra a mo’ d’uomo.. Ed è un orrore completo che m’invade di volata le punta delle dita del piede fino ai pelli della nuca che mi si rizzano. Rimango di stucco sul posto mentre gli occhi, anche se non chiusi, non vedono nulla. Mi sembra che la cosa bianca sia una delle forme della mia assenza che purtroppo non è ascritta a quella serie d’inventive che ho cogitato sulla morte. Non avrei mai pensato che la morte, la mia morte potesse avere colore bianco. Si capisce che quella chiazza che balugina nel buio non è lì per segnare la fine della mia strada, ma la mia stessa fine. Inutile, dacché trovandosi vicine durante tutti questi miei viaggi nella notte, la fine della mia strada e la mia stessa fine sono diventate la stessa cosa, fondendosi l’una all’altra così diventando conio unico e inscindibile. Indietreggio di un passo, due, poi di tanti passi e nell’impossibilità di correre, prendo la via del ritorno calzando i passi altrui. Perché, in quei momenti non c’è qualcosa che sia veramente mia, a parte la paura che mi martella il petto con un ritmo bestiale.
Sono completamente disorientato e con lo sguardo morto dentro le pupille. Sto tornando. Incredibile, ma sto tornando da dove sono partito alcune ore, giorni o mesi prima… Non sembra una questione di propositi, ma una questione di piedi che si muovono in modo involontario. L’eco dei passi, se ve n’era uno per davvero, tutt’a un tratto cessa. Rimango in mezzo alla strada, con una spalla che vede dalla strada del ritorno e con l’altra che vede dalla strada dell’arrivo. Devo raccogliermi e pensare molto seriamente riguardo il senso di movimento, perché c’è poco da fare, in un senso o nell’altro si deve andare. Il come e dove, ora come ora mi sembra una questione di second’ordine.
Ho l’impressione, certa oggi dopo venti anni inoltrati, che la decisione di far ritorno è stata presa da qualche parte in una delle viscere sconosciute della mente e della notte. Se oramai mi sono fermato, è stato perché tutt’a un tratto ha ripreso a funzionarmi la consapevolezza che credeva morta. Fin dal suo primo gesto, mi fece capire che la strada percorsa era oramai dieci volte più grande del cammino rimasto. E adesso? Se tornassi troverei la città dormiente ed è difficile che si trovi qualche porta, disposta ad aprirsi per me. Sulle strade senza vita illuminate da qualche lampada spenta, risuoneranno i miei soli passi, che vagheranno per la città e per la vita con la sensazione della paura per ogni cosa bianca che baluginerà nel buio in tutta realtà e secondo una logica incontestabile. Poi mi si da a vedere nel futuro: la mia vita assomiglia a un scantinato buio dove sono ammucchiati detriti a non finire di strade non percorse, o lasciate a metà semplicemente e per la sola causa che in un momento dato del viaggio per la notte, qualcosa di bianco è baluginato alla svolta di una strada… Tralascio ogni dubbio, e convinto che il danno causato dalla paura, è sempre meno accettabile del danno causato dal coraggio, avanzo sempre cercando di cogitare la misura del mio coraggio, dal timore di non potere poi giustificare nessuno dei passi che faccio senza direzione. Quando mi sento sicuro di aver superato la postazione della chiazza bianca, la paura mi si ripresenta, anche se non le si vedono bene i contorni perché mescolata a una curiosità veemente.
Di scatto giro la testa…
Ho camminato un po’ troppo. Il mistero della volta che ho appena passato, indugia nella forma di una chiazza bianca che tremola palpitante nell’oscurità. Cerco di convincermi che si tratti di questa o quella cosa, ma anche se sul palco della mia fantasia sfilano tutti gli oggetti bianchi che conosco, continuo a girare nella volta delle vaghe supposizioni. Avanzo. Mi rammento di nuovo della cose buone che offre la vita, ma oramai esse non terminano a una scodella di brodo caldo, al letto confortevole dove posso riposare le mie ossa stanche dalle lunghe peregrinazioni, e sopratutto a una lampada che mi offra un ambiente riconoscibile.
Il viaggio non finisce qui. Ho percorso nuove geografie nello spazio e nel tempo, e sempre, qua e là, mi è parsa dinnanzi e lo fa tuttora, una chiazza bianca, come la manifestazione di una forza oscura che scaturendo da me, cerca di ostacolarmi in questi miei infiniti viaggi, di cui ignorerò sempre la meta.

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