venerdì 26 marzo 2010

Romeo Çollaku

Le visite di madama Olimpia



Sono uscito di casa un attimo, giusto per comprare il giornale all'edicola qui di fronte, per cui non c’è stato bisogno di chiudere la porta a chiave. Facevo così ogni domenica mattina: preparavo il caffè, poi, nella veste da letto, uscivo fuori, prendevo il giornale, tornavo, mi bevevo un sorso, accendevo la sigaretta e mi mettevo a tavola per dividere la prima ora del mio giorno tra la lettura e la degustazione del caffè. Mi sembrava come se il mattino della domenica, con questi gesti semplici ma non del tutto privi d’importanza nella vita di uno scapolo, mi liberasse mente e corpo dalla stanchezza di tutta la settimana, indi per cui mi sarebbe stato difficile rinunciare a questa abitudine. Ora, a ragione, qualcuno potrà stupirsi di come sia possibile per l’uomo trovare riposo e tranquillità venendo a sapere dei delitti e degli incidenti del sabato sera, tanto più, da certe righe scritte piene di errori ortografici e logici. Che dire; persino il caffè e la sigaretta sono amare e dannose, però ci tranquillizzano un po’ e il povero uomo non ne può fare a meno.
Fu così pure quella mattina; mi misi a sfogliare il giornale in cortile. Dovrei piuttosto dire, lo sfogliai solo in cortile, mentre camminavo, di fretta. Poiché quando rincasai divenni testimone di una scena non del tutto consueto per le mattine delle mie domeniche. La vecchia madama Olimpia, la vicina della casa di fronte, era seduta a tavola, aveva acceso la radio e stava bevendo il mio caffè. Come se non bastasse, mi aveva anche sfilato due sigarette dal pacchetto; una la stava fumando, l’altra l’aveva dimenticata sul posacenere. Si voltò e mi rinfacciò quel suo sguardo sperduto, poi smise la sigaretta, avvicinò la testa bianca alla radio – il fazzoletto nero le era scivolato sulle spalle – e, con la poi anche quella del volume. Allora mi diedi una mossa, corsi verso lei e tolsi le batteria alla radio: da noi, al piano terreno, nell'appartamento, di fronte alla mia porta, abitavano da ottobre due studentesse che a quanto avevo capito, la domenica dormivano fino a mezzogiorno. Credo che la vecchia madama Olimpia un po’ se la prese, dico “credo” perché i suoi occhi erano privi di espressione da mesi, mentre la sua bocca era chiusa, pareva per sempre. Accese la terza sigaretta, mentre le altre due bruciavano sul posacenere, e tornò di nuovo al caffè. Stavo a guardarla; non sapevo come comportarmi con lei. Se le parlavo, non mi capiva. E poi cosa potevo dirle? Ultimamente, aveva perduto completamente la ragione. A volte rincasava tardi, per mezzanotte o l’una, e la trovavo così, curva e coi capelli scompigliati intenta ad aggirarsi da un capo al altro del cortile. Mi ero appena addormentato che venivo svegliato dai suoi singulti e dai suoi passi, per i corridoi del pianerottolo. Spesso, salivo a chiamare suo nipote, Stefo, e questi, dopo avermi ringraziato, scendeva giù e chissà come faceva, ma riusciva a dissuaderla e a farla rincasare. Nell'ultimo piano dell’edificio di due piani viveva col marito e i figli, madama Leni, la sorella della vecchia Olimpia, anche se uno non l’avrebbe mai detto. La casa credo fosse attestata alla Leni, perché, da quando mi trovavo ad abitarla – circa sei anni – pagavo sempre a lei l’affitto. Mi sembra gente per bene, anche se non c’avrei messo la mano sul fuoco: anche la vecchia Olimpia, all’inzio, mi aveva dato l’impressione della donna cordiale e di buon cuore, e addirittura con la sua veste tradizionale mi ricordava le vecchie della mia patria natia. Ma, la signora Leni, perché mai non doveva essere buona con me? – io le davo centomila lekë al mese, ogni mese.
La vecchia madama Olimpia finì il caffè e rovesciò la tazza, abitudine di cui manco la sclerosi, a quanto sembrava, riusciva a privarla. Rovesciò la tazza e con una mano tremolante, vi fece sopra il segno della croce. Poi s’alzo e aprì il frigo. Richiuse il frigo e aprì l’armadio. Richiuse pure l’armadio e aprì il rubinetto. Lo lasciò aperto e io andai a chiuderlo. Non sapevo come comportarmi con lei. Potevo salire a chiamate Stefo, ma temevo a ragione che rientrando, avrei trovato le bottiglie dell’olio d’oliva, i barattoli di miele, nonché la bottiglia di vino il tutto mandatomi dai miei, assieme al televisore, rotte in mille pezzi. Questa vecchia, nonostante il fatto che all'inizio, quando ci conoscemmo, io l’avevo rispettata, onorata e addirittura bene voluta come fosse la mia vera nonna, mostrava uno strano desiderio: farmi del male. In quei primi tempi, quando ci conoscemmo, quando io mi trasferì qui con le mie tre cose, era tutto un’altra cosa; potrei dire che in pochi giorni eravamo diventati amici. Allora, la vecchia madama Olimpia, pur avendo superato gli ottant'anni, era ancora a posto, non era stata toccata dalla sclerosi. Un po’ la sentivo lamentarsi del cuore, dei reumatismi, delle gambe che non la reggevano più, ma era palese che più che sentire qualche vero malore, si compiaceva. Quei giorni, io, la domenica mattina, ma anche nel pomeriggio, usavo prendere il caffè in giardino, sotto la pergola, dove messer Aleks e madama Leni, illuminati dal loro gusto pittoresco, avevano avuto la brillante idea di collocarvi un tavolo con due sedie, il tutto in plastica. Preparavo il caffè pure per madama Olimpia e ci mettevamo lì fuori, discorrevamo per un pezzo, e ce la passavamo alla bel e meglio. Che la passavamo bene, perché la vecchia – a quei tempi, all'inizio – mi raccontava storie piacevoli, magari un po’ dolorose, ma belle a prescindere, clip nostalgici dalla sua infanzia e dalla giovinezza. Mi descriveva madama Leni e lei stessa, quando erano entrambe piccole e giocavano sotto la pergola, mi parlava di Sofocle, il padre, che vedeva boza, ma “i tempi cambiarono” e fu travolto da un treno; mi raccontava degli anni della guerra, quando incollavano l’orecchio alla radio, mentre, fuori, il paese rombava dagli spari; mi sussurrava sotto voce della fortuna che non ebbe a sposarsi, perché “mirava in alto”, perché “tutti gli uomini, a quei tempi, erano dei mascalzoni” eccetera, eccetera. E, le sere, quando tornavo a casa non esitava a bussare alla mia porta e io, senza aprire, sapevo che era lei, con un piatto nelle mani e non di rado, pure due. “Ho preparato”, diceva “melanzane ripiene, pure la sfogliata con ricotta, tavë kosi, turchi, peperoni fritti, musata, funghi, latte di rondine”. E, di quando in quando, pure io le mandavo qualche pacchetto di sigarette, qualche scatola di caffè o dei pasticcini. Tutto ciò all'inizio, perché dopo, dopo che ci conoscemmo in un certo modo, i nostri rapporti cambiarono in peggio. Dopo aver creato confidenza con me, la vecchia Olimpia cambiò il tema delle sue confessioni e, il più delle volte con le lacrime agli occhi, prese a lamentarsi con me di madama Leni, di messer Aleks, di Stefo e di sua moglie Alma, di Sofocle, l’altro nipote a cui avevano dato il nome del padre, di Maria, la nipote, che veniva molto di rado i cui figli non degnavano di avvicinarlesi, del genere, “quel mascalzone!”, che fumava le sue sigarette e non le porgeva mai il pacchetto. Abbassava la voce e mi chiedeva: «Dimmelo tu, perché non posso restare anch’io, insieme a loro, al secondo piano? Eh, dimmi, perché? Sono sua sorella – perché, dimmelo?» e mi raccontava certe interminabili storie di litigi o di permalosità espresse e inespresse. Ogni volta che mi aveva parlato della sua infanzia, l’avevo sentita con piacere, ma questo tipo di lamenti lo malsoportavo. Che me fregava a me, se la figlia minore di Maria, quando la baciava madama Olimpia, prendeva a piangere e si asciugava il viso con il dorso della mano? Cambiavo conversazione, ma dopo un attimo, lei la faceva ritornare a prima, a Sofocle, a cui avevano dato il nome del padre, al giovane Sofo che si era comprato una Renault, ma «la sua mente non pensava mai, di prendere la zia a farle fare un giro verso il mercatone, la stazione ferroviaria, affinché vedesse lei pure se e come era cambiata la città». Una volta, due volte: non ce la facevo più; non mi andava di sentire le chiacchiere su famiglie con cui a parte gli scambi economici non mi ci legava nient’altro. Le feci capire che a me, non solo non m’interessavano queste cose, ma ne ero anche infastidito, non m’andava giù il caffé, quando sentivo, da un momento all'altro, di messer Aleks a cui puzzavano le scarpe, e di Stefo che veniva raggirato dalla moglie. Un giorno glielo dissi apertamente. Ma la vecchia Olimpia non sembrava capire: proprio perché non voleva! Lei abbisognava di un sacco o di una fossa, dove poter scaricare le pene e i tormenti di tutta una vita e, in questo caso, il sacco o la fossa ero io. Allora, visto che non mi piaceva fare da sacco né da fossa e soprattutto visto che non mi piaceva immischiarmi nelle faccende altrui, cominciai ad evitarla. Il caffé non lo bevevo più in cortile e, quando sentivo bussare alla porta, non aprivo, fingendo di star dormendo, anche se, a volte, mi veniva l’acquolina dall’odore del pesce alla griglia o delle bistecche di vitello. Non le portavo più banane, ne sigarette o pasticcini, nemmeno fragole che come soleva dire le facevano bene per i reumatismi. Addirittura, prima di uscire, origliava con cura il cortile dalla finestra e, solo dopo che si allontanava, partivo al lavoro. Entro un periodo molto breve, staccammo quasi ogni legame con l’un l’altro e arrivò il giorno in cui ci limitavamo a scambiarci un buongiorno o buonasera. Allora, la vecchia Olimpia divenne un’altra persona. Allora, le nacque quel desiderio di farmi del male. Sul parvaz della finestra, da fuori, avevo messo un vaso di giacinti e un altro di basilico, piantati da Silva, nei giorni quando stavamo insieme e la invitavo ogni tanto da me: un mattino trovai tutto strappato, ma non pensai alla vecchia Olimpia. Una mattina, in pieno inverno, trovai i vetri della finestra rotti: rattoppai con del cellofan e fui preso dai dubbi. Un giorno trovai sulla mia porta la scritta «farabutto», scritta – vi stupirete – con passata di pomodoro, non ci poteva essere una prova più sicura di questa per me. Pur tuttavia non le dissi niente: mi fingevo all'ignaro dei fatti. Ci incontravamo in corridoi o in cortile, ma io non la salutavo per primo. Anche lei, aspettava il mio saluto: così, tanto semplicemente, giungemmo a non rivolgerci più la parola. Piantai di nuovo basilico e giacinti e, di nuovo, un mattino trovai tutto strappato. Misi i vetri nuovi sulla finestra e, di nuovo, un pomeriggio li trovai in frantumi. Una sera, ritrovai sulla mia porta la parola «farabutto», scritta stavolta con ricotta o yogurt. Fui costretto a lamentarmene da madama Leni.
- Che possiamo farci? – mi rispose lei, - è malata, a perso il senno.
E infatti, poco a poco, la vecchia Olimpia stava perdendo la sua ragione; non parlava più a nessuno. Cominciò ad aggirarsi, dal corridoio in cortile e dal cortile al corridoi, con i cappelli sparpagliati sul foulard e con gli occhi ora smarriti ora sgranati, giorno e notte. Non riconosceva più nessuno, non sapeva dove si trovava, in che tempo e perché.
Così la trovai anche quella domenica mattina, quando, lasciando la porta aperta, uscii due minuti fino al edicola di fronte, per comprarmi il giornale. Aveva confuso, a quanto pare, porta e forse nessuno dei pochi mobili della mia stanza le era sembrato sconosciuto; forse, grazie alla dimenticanza, le sembrava che era tutto roba sua, sua la casa, e suo il mondo. Volevo parlarle ma non ci riuscivo. Una mano invisibile mi aveva tappato la bocca, come direbbero gli scrittori. Non potevo parlarle, non conoscendo bene la sua malattia avevo paura potesse prendere uno spavento e stare male. Non potevo parlarle, forse, dalla mia testardaggine: da quando mi aveva rotto i vetri e strappato i fiori, mi ero giurato di non rivolgerle più la parola; da allora ebbi l’impressione che era una vecchia malvagia, cuore nero, demonica, il male in persona. Non potevo neanche andare al piano di sopra a chiamare Stefo: era sicuro che nel frattempo lei mi avrebbe rotto le ciotole di miele, le bottiglie d’olio, il televisore, la radio, tutti i vetri delle finestre e avrebbe scribacchiato col fondo di caffè su qualche parete la parola «farabutto» che amava tanto, e non sarebbe stato strano, se per chiudere, avesse strappato pure il mio giornale comprato di fresco.
Accese un’altra sigaretta e, mentre s’aggirava per la stanza, il foulard le scivolò del tutto dalla testa e cadete sul pavimento, davanti ai miei piedi. Gli diedi, con rabbia un calcio e si perse, sotto il letto o non so dove. Continuava a girare per la stanza; guardava di qua e di là, con quel suo sguardo smarrito; guardava le pareti, le finestre, i mobili; cercava, a quanto sembrava, di che farmi del male, con la sua inguaribile cattiveria. Andò ad accendere il televisore. Dopo un po’ lo spense e aprì le finestre. Richiuse le finestre e questa volta, aprì il rubinetto. Lo lasciò aperto e io corsi a richiuderlo. Allora, lei, sempre tentennando, andò a sdraiarsi nel mio letto.
Quando tornai, in compagnia di Stefo e a messer Aleks, lei si era addormentata. La svegliammo e, all'istante lei scoppiò in un urlo lungo come un ululato. Non so donde le uscì quel urlo, poiché la sua bocca come di consueto a quei tempi, era fermamente serrata. Dalle orecchie? Dal naso? – non so. Pure madama Leni scese giù, e dopo avermi chiesto scusa,
- È malata, - mi disse, - è fuori di senno, soffre di sclerosi, e ancora, - ci scusaste, ci scusaste, lei non ci deve certo tali importuni.
Le misero le mani sotto le ascelle e la sollevarono. Mentre la spingevano alla porta, lei voltò la testa un’altra volta e mi vide con quella sua espressione smarrita, senza senso, senza espressione. Uscirono. Sopra il tavolo, rimase la tazza capovolta e sul posacenere, quattro chicche di sigaretta, come madama Olimpia le aveva lasciate.
Questo fu prima che lei morisse.

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