venerdì 28 maggio 2010

EPIFANIA - POEMA - SH.KELMENDI

EPIFANIA



I.

Sconfinano i piani del sapere all’infinito
E le stelle, granelli di sabbia tra le tue mani
Unte di acqua dorata di silenzio.
In cosa fummo c’è del futuro, e in ciò che siamo
Eternità che scorre in mezzo al cuore.
L’universo ci si nasconde nel petto,
Viviamo sotto il cielo ma il cielo è in noi
E le nuvole, le colline, il bosco dei cantori.
Con lo sguardo rivolto dentro e fuori,
Ascoltiamo e tacciamo parliamo e pensiamo,
Strisciamo e bramiamo e ci felicitiamo
Nella cerchia illusoria del saperci.
A colui che si lascia incantare dal sole all’alba
Scorre tra le dita la nostalgia del Creato, nel vespro
Rimpiange la porta che non apre più da tempo.
Non sta mai fermo un attimo, diverse nuove forme
Con l’impasto dei sensi crea e corre
Anche lui a impastarsi in nuova forma.
Scende e risale l’anfratto della memoria
E si stupisce di cose semplici, l’erba
La pioggia e l’umano sorriso, le formiche
Che trascinano qualche insetto al nido
I cani randagi con i musi tra lordure,
Volti conosciuti eppure mai visti
Nubi che avvolgono e disperdono il primo grido,
L’attimo, la noia il casino e la solitudine,
Infine la libertà che sospinge il pensiero
Per quei cieli che abitiamo solo in sogno.


II.

Si apre la finestra del sapere, si allarga il campo
Delle cose che ignoriamo. E ci alita accanto
L’aroma dell’ignoto che sa farsi presenza,
Un corpo vivo di etere che scaraventa il nostro oggi
Come un bambino il sasso nel fiume degli anni
Che non sappiamo di avere percorso. La si trova
Appoggiata sul davanzale del giorno dirimpetto
All’Universo tessendo corone indorate per lo spazio
E del libro dei miracoli sfoglia il giorno e la notte
Il fruscio delle foglie il volo di un uccello
Astri Soli, terre di confine che sfociano
Come cascate nel cuore, sfoglia la lingua
Degli oggetti, dicono cose che l’uomo capisce
Adagiato al centro del Creato mentre rigetta
Il suo Io come fosse un vecchio straccio e sulla fronte
Nelle rughe gli scorrono i ruscelli del tempo.


III.

Poi sfoglia se stesso, scruta il suo libro,
Il sentiero di passo, le vite nelle mani come arance
Mature, lanciate sul dorso del mare che lo invita al tuffo.
Si scavalca il verbo e nel giardino accanto
Uno strano sole per i fogli d’erba
Sussurra nuovi messaggi alle radici,
L’attimo è vita ma lungo la sordida via
Non è che mosca spiaccicata sotto la suola dell’ubriaco
Che orina la sua realtà all’angolo del muro
Ruttando immagini che non giungono a parola.
Nella storia di ieri inciampa il domani
Per i gironi del sonno, una lucertola
Che ci guizza tra i piedi. Qualcosa si staglia...
Passa l’uomo appagato, sorridendo alla cieca
Alla lama della strada che gli si conficca nel costato
E si sente vittima delle trappole geometriche
Che sciupano le pieghe al coraggio accecato.
La vita è presente. Da parte a parte
Un belvedere di occhi affissi nel visibile
Mi rammenta il mio dovere. Si sbaciucchia fior di labbra
La giovane coppia pomiciona, cicatrici
Sulla nozione corporea della realtà,
Delinea una forma della Alta Presenza
Nel suono squartato dalla letizia di un attimo.


IV.

Si è stati si è e si rimane
Parola che stenta a lasciarsi dire fino in fondo,
Nel “no” senza il dolore del perfetto sacrificio che varca
E varca la porta delle frustrazioni della materia.
Ecco il salice allo “Snack” ha fretta di primavera,
Verdeggia oltre il tempo con radici nella memoria
Che ci detiene. E che voce languida
Sui malori non sbocciati che abbiamo prodigato
Nei fossati dell’impossibilità aerea.
Alte e basse maree della presenza risucchiano
Le barche dei giorni che non ci hanno mai sorretti
Verso approdi che appaiono e scompaiono sulle acque
Come i pesci. E allora giunge morte frugandoci in vano
Le tasche in cerca di briciole di dignità
Spesa in banchetti luminescenti d’arroganza.
C’è troppo rumore. Le campane senza rintocco non hanno
Svegliato il sapere che dorme in sacchi di pelle
E si rotola giù nell’oscuro gorgo della mente.

continua...