venerdì 26 marzo 2010

Romeo Çollaku

Le visite di madama Olimpia



Sono uscito di casa un attimo, giusto per comprare il giornale all'edicola qui di fronte, per cui non c’è stato bisogno di chiudere la porta a chiave. Facevo così ogni domenica mattina: preparavo il caffè, poi, nella veste da letto, uscivo fuori, prendevo il giornale, tornavo, mi bevevo un sorso, accendevo la sigaretta e mi mettevo a tavola per dividere la prima ora del mio giorno tra la lettura e la degustazione del caffè. Mi sembrava come se il mattino della domenica, con questi gesti semplici ma non del tutto privi d’importanza nella vita di uno scapolo, mi liberasse mente e corpo dalla stanchezza di tutta la settimana, indi per cui mi sarebbe stato difficile rinunciare a questa abitudine. Ora, a ragione, qualcuno potrà stupirsi di come sia possibile per l’uomo trovare riposo e tranquillità venendo a sapere dei delitti e degli incidenti del sabato sera, tanto più, da certe righe scritte piene di errori ortografici e logici. Che dire; persino il caffè e la sigaretta sono amare e dannose, però ci tranquillizzano un po’ e il povero uomo non ne può fare a meno.
Fu così pure quella mattina; mi misi a sfogliare il giornale in cortile. Dovrei piuttosto dire, lo sfogliai solo in cortile, mentre camminavo, di fretta. Poiché quando rincasai divenni testimone di una scena non del tutto consueto per le mattine delle mie domeniche. La vecchia madama Olimpia, la vicina della casa di fronte, era seduta a tavola, aveva acceso la radio e stava bevendo il mio caffè. Come se non bastasse, mi aveva anche sfilato due sigarette dal pacchetto; una la stava fumando, l’altra l’aveva dimenticata sul posacenere. Si voltò e mi rinfacciò quel suo sguardo sperduto, poi smise la sigaretta, avvicinò la testa bianca alla radio – il fazzoletto nero le era scivolato sulle spalle – e, con la poi anche quella del volume. Allora mi diedi una mossa, corsi verso lei e tolsi le batteria alla radio: da noi, al piano terreno, nell'appartamento, di fronte alla mia porta, abitavano da ottobre due studentesse che a quanto avevo capito, la domenica dormivano fino a mezzogiorno. Credo che la vecchia madama Olimpia un po’ se la prese, dico “credo” perché i suoi occhi erano privi di espressione da mesi, mentre la sua bocca era chiusa, pareva per sempre. Accese la terza sigaretta, mentre le altre due bruciavano sul posacenere, e tornò di nuovo al caffè. Stavo a guardarla; non sapevo come comportarmi con lei. Se le parlavo, non mi capiva. E poi cosa potevo dirle? Ultimamente, aveva perduto completamente la ragione. A volte rincasava tardi, per mezzanotte o l’una, e la trovavo così, curva e coi capelli scompigliati intenta ad aggirarsi da un capo al altro del cortile. Mi ero appena addormentato che venivo svegliato dai suoi singulti e dai suoi passi, per i corridoi del pianerottolo. Spesso, salivo a chiamare suo nipote, Stefo, e questi, dopo avermi ringraziato, scendeva giù e chissà come faceva, ma riusciva a dissuaderla e a farla rincasare. Nell'ultimo piano dell’edificio di due piani viveva col marito e i figli, madama Leni, la sorella della vecchia Olimpia, anche se uno non l’avrebbe mai detto. La casa credo fosse attestata alla Leni, perché, da quando mi trovavo ad abitarla – circa sei anni – pagavo sempre a lei l’affitto. Mi sembra gente per bene, anche se non c’avrei messo la mano sul fuoco: anche la vecchia Olimpia, all’inzio, mi aveva dato l’impressione della donna cordiale e di buon cuore, e addirittura con la sua veste tradizionale mi ricordava le vecchie della mia patria natia. Ma, la signora Leni, perché mai non doveva essere buona con me? – io le davo centomila lekë al mese, ogni mese.
La vecchia madama Olimpia finì il caffè e rovesciò la tazza, abitudine di cui manco la sclerosi, a quanto sembrava, riusciva a privarla. Rovesciò la tazza e con una mano tremolante, vi fece sopra il segno della croce. Poi s’alzo e aprì il frigo. Richiuse il frigo e aprì l’armadio. Richiuse pure l’armadio e aprì il rubinetto. Lo lasciò aperto e io andai a chiuderlo. Non sapevo come comportarmi con lei. Potevo salire a chiamate Stefo, ma temevo a ragione che rientrando, avrei trovato le bottiglie dell’olio d’oliva, i barattoli di miele, nonché la bottiglia di vino il tutto mandatomi dai miei, assieme al televisore, rotte in mille pezzi. Questa vecchia, nonostante il fatto che all'inizio, quando ci conoscemmo, io l’avevo rispettata, onorata e addirittura bene voluta come fosse la mia vera nonna, mostrava uno strano desiderio: farmi del male. In quei primi tempi, quando ci conoscemmo, quando io mi trasferì qui con le mie tre cose, era tutto un’altra cosa; potrei dire che in pochi giorni eravamo diventati amici. Allora, la vecchia madama Olimpia, pur avendo superato gli ottant'anni, era ancora a posto, non era stata toccata dalla sclerosi. Un po’ la sentivo lamentarsi del cuore, dei reumatismi, delle gambe che non la reggevano più, ma era palese che più che sentire qualche vero malore, si compiaceva. Quei giorni, io, la domenica mattina, ma anche nel pomeriggio, usavo prendere il caffè in giardino, sotto la pergola, dove messer Aleks e madama Leni, illuminati dal loro gusto pittoresco, avevano avuto la brillante idea di collocarvi un tavolo con due sedie, il tutto in plastica. Preparavo il caffè pure per madama Olimpia e ci mettevamo lì fuori, discorrevamo per un pezzo, e ce la passavamo alla bel e meglio. Che la passavamo bene, perché la vecchia – a quei tempi, all'inizio – mi raccontava storie piacevoli, magari un po’ dolorose, ma belle a prescindere, clip nostalgici dalla sua infanzia e dalla giovinezza. Mi descriveva madama Leni e lei stessa, quando erano entrambe piccole e giocavano sotto la pergola, mi parlava di Sofocle, il padre, che vedeva boza, ma “i tempi cambiarono” e fu travolto da un treno; mi raccontava degli anni della guerra, quando incollavano l’orecchio alla radio, mentre, fuori, il paese rombava dagli spari; mi sussurrava sotto voce della fortuna che non ebbe a sposarsi, perché “mirava in alto”, perché “tutti gli uomini, a quei tempi, erano dei mascalzoni” eccetera, eccetera. E, le sere, quando tornavo a casa non esitava a bussare alla mia porta e io, senza aprire, sapevo che era lei, con un piatto nelle mani e non di rado, pure due. “Ho preparato”, diceva “melanzane ripiene, pure la sfogliata con ricotta, tavë kosi, turchi, peperoni fritti, musata, funghi, latte di rondine”. E, di quando in quando, pure io le mandavo qualche pacchetto di sigarette, qualche scatola di caffè o dei pasticcini. Tutto ciò all'inizio, perché dopo, dopo che ci conoscemmo in un certo modo, i nostri rapporti cambiarono in peggio. Dopo aver creato confidenza con me, la vecchia Olimpia cambiò il tema delle sue confessioni e, il più delle volte con le lacrime agli occhi, prese a lamentarsi con me di madama Leni, di messer Aleks, di Stefo e di sua moglie Alma, di Sofocle, l’altro nipote a cui avevano dato il nome del padre, di Maria, la nipote, che veniva molto di rado i cui figli non degnavano di avvicinarlesi, del genere, “quel mascalzone!”, che fumava le sue sigarette e non le porgeva mai il pacchetto. Abbassava la voce e mi chiedeva: «Dimmelo tu, perché non posso restare anch’io, insieme a loro, al secondo piano? Eh, dimmi, perché? Sono sua sorella – perché, dimmelo?» e mi raccontava certe interminabili storie di litigi o di permalosità espresse e inespresse. Ogni volta che mi aveva parlato della sua infanzia, l’avevo sentita con piacere, ma questo tipo di lamenti lo malsoportavo. Che me fregava a me, se la figlia minore di Maria, quando la baciava madama Olimpia, prendeva a piangere e si asciugava il viso con il dorso della mano? Cambiavo conversazione, ma dopo un attimo, lei la faceva ritornare a prima, a Sofocle, a cui avevano dato il nome del padre, al giovane Sofo che si era comprato una Renault, ma «la sua mente non pensava mai, di prendere la zia a farle fare un giro verso il mercatone, la stazione ferroviaria, affinché vedesse lei pure se e come era cambiata la città». Una volta, due volte: non ce la facevo più; non mi andava di sentire le chiacchiere su famiglie con cui a parte gli scambi economici non mi ci legava nient’altro. Le feci capire che a me, non solo non m’interessavano queste cose, ma ne ero anche infastidito, non m’andava giù il caffé, quando sentivo, da un momento all'altro, di messer Aleks a cui puzzavano le scarpe, e di Stefo che veniva raggirato dalla moglie. Un giorno glielo dissi apertamente. Ma la vecchia Olimpia non sembrava capire: proprio perché non voleva! Lei abbisognava di un sacco o di una fossa, dove poter scaricare le pene e i tormenti di tutta una vita e, in questo caso, il sacco o la fossa ero io. Allora, visto che non mi piaceva fare da sacco né da fossa e soprattutto visto che non mi piaceva immischiarmi nelle faccende altrui, cominciai ad evitarla. Il caffé non lo bevevo più in cortile e, quando sentivo bussare alla porta, non aprivo, fingendo di star dormendo, anche se, a volte, mi veniva l’acquolina dall’odore del pesce alla griglia o delle bistecche di vitello. Non le portavo più banane, ne sigarette o pasticcini, nemmeno fragole che come soleva dire le facevano bene per i reumatismi. Addirittura, prima di uscire, origliava con cura il cortile dalla finestra e, solo dopo che si allontanava, partivo al lavoro. Entro un periodo molto breve, staccammo quasi ogni legame con l’un l’altro e arrivò il giorno in cui ci limitavamo a scambiarci un buongiorno o buonasera. Allora, la vecchia Olimpia divenne un’altra persona. Allora, le nacque quel desiderio di farmi del male. Sul parvaz della finestra, da fuori, avevo messo un vaso di giacinti e un altro di basilico, piantati da Silva, nei giorni quando stavamo insieme e la invitavo ogni tanto da me: un mattino trovai tutto strappato, ma non pensai alla vecchia Olimpia. Una mattina, in pieno inverno, trovai i vetri della finestra rotti: rattoppai con del cellofan e fui preso dai dubbi. Un giorno trovai sulla mia porta la scritta «farabutto», scritta – vi stupirete – con passata di pomodoro, non ci poteva essere una prova più sicura di questa per me. Pur tuttavia non le dissi niente: mi fingevo all'ignaro dei fatti. Ci incontravamo in corridoi o in cortile, ma io non la salutavo per primo. Anche lei, aspettava il mio saluto: così, tanto semplicemente, giungemmo a non rivolgerci più la parola. Piantai di nuovo basilico e giacinti e, di nuovo, un mattino trovai tutto strappato. Misi i vetri nuovi sulla finestra e, di nuovo, un pomeriggio li trovai in frantumi. Una sera, ritrovai sulla mia porta la parola «farabutto», scritta stavolta con ricotta o yogurt. Fui costretto a lamentarmene da madama Leni.
- Che possiamo farci? – mi rispose lei, - è malata, a perso il senno.
E infatti, poco a poco, la vecchia Olimpia stava perdendo la sua ragione; non parlava più a nessuno. Cominciò ad aggirarsi, dal corridoio in cortile e dal cortile al corridoi, con i cappelli sparpagliati sul foulard e con gli occhi ora smarriti ora sgranati, giorno e notte. Non riconosceva più nessuno, non sapeva dove si trovava, in che tempo e perché.
Così la trovai anche quella domenica mattina, quando, lasciando la porta aperta, uscii due minuti fino al edicola di fronte, per comprarmi il giornale. Aveva confuso, a quanto pare, porta e forse nessuno dei pochi mobili della mia stanza le era sembrato sconosciuto; forse, grazie alla dimenticanza, le sembrava che era tutto roba sua, sua la casa, e suo il mondo. Volevo parlarle ma non ci riuscivo. Una mano invisibile mi aveva tappato la bocca, come direbbero gli scrittori. Non potevo parlarle, non conoscendo bene la sua malattia avevo paura potesse prendere uno spavento e stare male. Non potevo parlarle, forse, dalla mia testardaggine: da quando mi aveva rotto i vetri e strappato i fiori, mi ero giurato di non rivolgerle più la parola; da allora ebbi l’impressione che era una vecchia malvagia, cuore nero, demonica, il male in persona. Non potevo neanche andare al piano di sopra a chiamare Stefo: era sicuro che nel frattempo lei mi avrebbe rotto le ciotole di miele, le bottiglie d’olio, il televisore, la radio, tutti i vetri delle finestre e avrebbe scribacchiato col fondo di caffè su qualche parete la parola «farabutto» che amava tanto, e non sarebbe stato strano, se per chiudere, avesse strappato pure il mio giornale comprato di fresco.
Accese un’altra sigaretta e, mentre s’aggirava per la stanza, il foulard le scivolò del tutto dalla testa e cadete sul pavimento, davanti ai miei piedi. Gli diedi, con rabbia un calcio e si perse, sotto il letto o non so dove. Continuava a girare per la stanza; guardava di qua e di là, con quel suo sguardo smarrito; guardava le pareti, le finestre, i mobili; cercava, a quanto sembrava, di che farmi del male, con la sua inguaribile cattiveria. Andò ad accendere il televisore. Dopo un po’ lo spense e aprì le finestre. Richiuse le finestre e questa volta, aprì il rubinetto. Lo lasciò aperto e io corsi a richiuderlo. Allora, lei, sempre tentennando, andò a sdraiarsi nel mio letto.
Quando tornai, in compagnia di Stefo e a messer Aleks, lei si era addormentata. La svegliammo e, all'istante lei scoppiò in un urlo lungo come un ululato. Non so donde le uscì quel urlo, poiché la sua bocca come di consueto a quei tempi, era fermamente serrata. Dalle orecchie? Dal naso? – non so. Pure madama Leni scese giù, e dopo avermi chiesto scusa,
- È malata, - mi disse, - è fuori di senno, soffre di sclerosi, e ancora, - ci scusaste, ci scusaste, lei non ci deve certo tali importuni.
Le misero le mani sotto le ascelle e la sollevarono. Mentre la spingevano alla porta, lei voltò la testa un’altra volta e mi vide con quella sua espressione smarrita, senza senso, senza espressione. Uscirono. Sopra il tavolo, rimase la tazza capovolta e sul posacenere, quattro chicche di sigaretta, come madama Olimpia le aveva lasciate.
Questo fu prima che lei morisse.

Racconto di Sh. Kelmendi

L’ UOMO DELLA NOTTE



Viaggiavo nottetempo.
Nella locanda zozza donde gli ubriachi hanno preso ad allontanarsi uno per uno, chi sulle proprie gambe traballanti come altri sorretti o trascinati dai compagni, vi è questo vecchio che m’osserva con un fastidio palese, mentre le pile di tazze e bicchieri da lavare mi permettono di vedergli solo il ciuffo dei capelli canuti sulla stretta fronte. Ecco anche due topi stanchi che giacciono dentro due buchi: gli occhi. Il barista. Aspetta che me ne vada. Anche la notte m’aspetta lì fuori. Sento l’obbligo d’avvicinarmi al banco per dire a quell’uomo che una volta scolato il bicchiere di anice, il medesimo che mi sta porgendo, e messo al braccio la bisaccia, quella verde che si trova sul terzo tavolo, vicino a quelle sedia rovesciata, mi toccherà viaggiare tre ore per la notte. Tre ore rotte che Dio voglia non mi diventino quattro, cinque, sette, e specialmente non un’eternità. Il vecchio capisce che non sto dicendo queste parole per giustificare il mio tardo avvento, ma semplicemente per trovare qualcuno che accetti di farsi unico testimone di una marcia eroica. Allunga un po’ la testa, mi squadra cogli occhi della testa ai piedi e sempre con lo stesso fastidio dice, chi se ne frega. Poi sembra dispiacersi e aggiunge che, da tutto ciò non gli dice niente di nuovo e che per tutti si può considerare un fatto del tutto normale. Anzi so di gente che ha viaggiato di notte per tutta la vita. Naturalmente non si esclude qualche isola baluginante di luce, ma è la notte quella che ha prevalso.
Sono giovane e queste parole dette così gratuitamente e con un tono per niente paterno dalla bocca di un barista di periferia, al quale per di più è venuto a mancare da tempo qualsiasi piacere nel comunicare, mi fanno profonda impressione. Quell’uomo avvilito viveva al baratro. Provo invano a ricordargli che non parlo della notte, ma della mia notte, perché subito mi risponde che ad ognuno basta la propria di notte. Non mi sentii affatto consolato, e ora, dopo tanti anni, penso che quel vecchio scorbutico – Dio accolga la sua anima, sempre che sia esistito -, aveva veramente ragione. Rammento il suo volto oscuro e mi spiace di non avervi scorto la notte che gli aveva impregnato l’intero essere, ma ciò che penso oggi non vale che per oggi. E credetemi, in questo istante, proprio in questo istante, una serie di verità mi si occultano tutt’intorno mentre scivolo verso il mare dell’ignoto. Pago. Il barista mi consiglia di partire comunque, anche se ho paura, se no essa, la paura, rimarrà eternamente una questione aperta per me. Gli dico che non è la prima volta che viaggio nella notte, invece lui risponde fulmineo che per nessuna cosa esiste una seconda volta. Mi metto in cammino sotto la luce soffusa di una luna che ha iniziato a esimersi a poco a poco dall’impazienza e di non illuminare altri che se stessa oramai. Le luci dell’umile borgata rimangono alle spalle ed ecco, dopo un po’ somigliano ad un ricordo che si spegne pian piano senza poter conservare un granché dalla primordiale forma della sensazione. In istanti così mi persuado di essere nato, vissuto, di vivere e di dover morire da solo tra le grinfia della notte. Schiavo suo. La strada serpeggia, sale e scende attraverso una selva sconfinata che poggia indosso a tartarughe giganti. Colline a perdita d’occhio. Scricchiolano pel autunno inoltrato gli alberi semispogli, mentre un turbine di vento senza rotta definibile agita scaraventami in faccia folle di foglie secche. Frusciano a fianco alla strada i roveti che assomigliano a chiazze ulcerose di rimorsi della coscienza, e mi sembra come se brulicassero di bestie invisibili e per di più ignote. S’odono le grida dei volatili nottambuli e i latrati lontani di cani e lupi. Non ho paura. Non perché sono coraggioso, ma perché ancora non mi è toccato di trovarmi faccia a faccia con la paura da poter riconoscerne la forma. Sono in un’età in cui se non mi spaventa il visibile, niente mi fa paura. Però m’inquieto. M’inquieto perché durante questa marcia cieca nella notte, anche se la strada è molto ampia, da potervici scambiare due camion pesanti, di quelli che trasportano i tronchi, potrebbe scapparmi il piede e così finirei nell’oscuro abisso. Non voglio neanche pensare come finirei. Poiché non lo so, poiché non ho ancora capito se la morte esiste. Ma mi sento in qualche modo abbandonato: è l’ora in cui tutti sono rinchiusi nelle dimore sicure, calde e anzitutto illuminate, mentre io sono costretto a viaggiare nella notte, anche se, si capisce, non correrò alcun pericolo. Scorgo lassù la pallida fascia di una luce che sgorga da uno di quei camion remoti, e che ogni tanto giunge fino a me. Non si ode alcun boato, ma immagino che sia uno di quei camion tardivi che avanzano indolententi, col quale so di dovermi trovare tra non più di un’ora. Incomincio ad aspettare con impazienza l’incontro con questo camion, anche se so che il bene che mi porterà la sua luce, è probabile che si riduca solo con l’illuminazione momentanea dell’oscurità che mi circonda, oscurità che poi rischierà di divenire ancora più nefasta. Dopo un po’ noto che la mia speranza ha una ragione forte: non è poco neanche lo sfavillio di una fiammifero per uno che viaggia nell’infinita oscurità. La notte si è aggravata e nella sua pancia tracolla l’angoscia. Vorrei essere stanco, per poi riposare un attimo vicino a qualche roveto misterioso e accogliente, ma non ho tempo. La stanchezza è un lusso che non mi sono ancora meritato. Alla fine di questa strada o di questa notte mi attende una scodella di brodo caldo, un letto e sopratutto una lampada, una lampada con l’aiuto della quale mi sentirò un po’ sereno dentro un ambiente riconoscibile. Si capisce, nella vita ci possono essere pure molte altre cose che regalano piacere, ma lor signori mi scuseranno, se per il momento non me ne ricordo.
Quando per la prima volta la gente seppe che sarei stato costretto a viaggiare nella notte, dissero poveraccio, è cosi giovane. Si dice che da allora sono passati ventidue anni rotti, ma in uno stato di calma, quando avrò vicino un piatto di brodo caldo, un letto e sopratutto una lampada che mi offrirà un ambiente riconoscibile, cercherò di convincervi che non è passato più di un anno. Una cosa è certa: il tempo, il tempo sta tirando brutti scherzi, a me o a loro. In tal caso cerco di scoprire che valore potrebbe avere un anno della mia piccola vita nell’oceano del tempo, figurarsi poi una scodella di brodo caldo, un letto e una lampada…. Mi ricordo di essere piccolo, terribilmente e ignominiosamente piccolo davanti alla notte infinita dove mi pare che siano affogate lo spazio e il tempo. Notte e strada, entrambe interminabili. L’unica cosa di cui penosamente intuisco la fine, è la mia stessa vita che trasale ogni volta che dall’altro emisfero della consapevolezza soffia la mia prossima assenza, assenza che potrebbe venire causata dallo scivolare sul ciglio della strada, da qualche lupo affamato che gironzola nei dintorni, o dall’improvvisa aggressione di un uomo armato che mi ha teso un’imboscata per punirmi di colpe che non mi ricordo. Questo momento può essere adesso, qui, per me.
Colori… Uno ad uno, compaiono e scompaiono di fila tutti i colori che compongono lo spettro della luce. Cerco di fonderli tutti in uno solo per imbastire la luce che ho così a lungo sognato, ma i miei sforzi si risolvono regolarmente in sonori fiaschi. I colori vanno e vengono uno dopo l’altro, guidati da una fredda indifferenza. In un certo istante il miracolo in cui oramai non spero più, avviene: i colori prendono a scomparire tutti di fila e uno dopo l’altro, proprio com’erano apparsi, e a breve, da quel rosario scintillante non rimane che un unico colore, il bianco circonfuso d’una triste aureola nera. Attendo ansiosa che anche il nero si dissolva, mentre il bianco invada lo spazio intero. Ma questo spazio, dove siamo contenuti sia io che la chiazza bianca, rimane nero, spaventoso e quel che è peggio non inafferrabile. Il nero non è altro che la notte donde io cammino, mentre il bianco solo una chiazza che si trova poco più di cento metri distante da me, vicino a una chiazza sospesa sulla terra a mo’ d’uomo.. Ed è un orrore completo che m’invade di volata le punta delle dita del piede fino ai pelli della nuca che mi si rizzano. Rimango di stucco sul posto mentre gli occhi, anche se non chiusi, non vedono nulla. Mi sembra che la cosa bianca sia una delle forme della mia assenza che purtroppo non è ascritta a quella serie d’inventive che ho cogitato sulla morte. Non avrei mai pensato che la morte, la mia morte potesse avere colore bianco. Si capisce che quella chiazza che balugina nel buio non è lì per segnare la fine della mia strada, ma la mia stessa fine. Inutile, dacché trovandosi vicine durante tutti questi miei viaggi nella notte, la fine della mia strada e la mia stessa fine sono diventate la stessa cosa, fondendosi l’una all’altra così diventando conio unico e inscindibile. Indietreggio di un passo, due, poi di tanti passi e nell’impossibilità di correre, prendo la via del ritorno calzando i passi altrui. Perché, in quei momenti non c’è qualcosa che sia veramente mia, a parte la paura che mi martella il petto con un ritmo bestiale.
Sono completamente disorientato e con lo sguardo morto dentro le pupille. Sto tornando. Incredibile, ma sto tornando da dove sono partito alcune ore, giorni o mesi prima… Non sembra una questione di propositi, ma una questione di piedi che si muovono in modo involontario. L’eco dei passi, se ve n’era uno per davvero, tutt’a un tratto cessa. Rimango in mezzo alla strada, con una spalla che vede dalla strada del ritorno e con l’altra che vede dalla strada dell’arrivo. Devo raccogliermi e pensare molto seriamente riguardo il senso di movimento, perché c’è poco da fare, in un senso o nell’altro si deve andare. Il come e dove, ora come ora mi sembra una questione di second’ordine.
Ho l’impressione, certa oggi dopo venti anni inoltrati, che la decisione di far ritorno è stata presa da qualche parte in una delle viscere sconosciute della mente e della notte. Se oramai mi sono fermato, è stato perché tutt’a un tratto ha ripreso a funzionarmi la consapevolezza che credeva morta. Fin dal suo primo gesto, mi fece capire che la strada percorsa era oramai dieci volte più grande del cammino rimasto. E adesso? Se tornassi troverei la città dormiente ed è difficile che si trovi qualche porta, disposta ad aprirsi per me. Sulle strade senza vita illuminate da qualche lampada spenta, risuoneranno i miei soli passi, che vagheranno per la città e per la vita con la sensazione della paura per ogni cosa bianca che baluginerà nel buio in tutta realtà e secondo una logica incontestabile. Poi mi si da a vedere nel futuro: la mia vita assomiglia a un scantinato buio dove sono ammucchiati detriti a non finire di strade non percorse, o lasciate a metà semplicemente e per la sola causa che in un momento dato del viaggio per la notte, qualcosa di bianco è baluginato alla svolta di una strada… Tralascio ogni dubbio, e convinto che il danno causato dalla paura, è sempre meno accettabile del danno causato dal coraggio, avanzo sempre cercando di cogitare la misura del mio coraggio, dal timore di non potere poi giustificare nessuno dei passi che faccio senza direzione. Quando mi sento sicuro di aver superato la postazione della chiazza bianca, la paura mi si ripresenta, anche se non le si vedono bene i contorni perché mescolata a una curiosità veemente.
Di scatto giro la testa…
Ho camminato un po’ troppo. Il mistero della volta che ho appena passato, indugia nella forma di una chiazza bianca che tremola palpitante nell’oscurità. Cerco di convincermi che si tratti di questa o quella cosa, ma anche se sul palco della mia fantasia sfilano tutti gli oggetti bianchi che conosco, continuo a girare nella volta delle vaghe supposizioni. Avanzo. Mi rammento di nuovo della cose buone che offre la vita, ma oramai esse non terminano a una scodella di brodo caldo, al letto confortevole dove posso riposare le mie ossa stanche dalle lunghe peregrinazioni, e sopratutto a una lampada che mi offra un ambiente riconoscibile.
Il viaggio non finisce qui. Ho percorso nuove geografie nello spazio e nel tempo, e sempre, qua e là, mi è parsa dinnanzi e lo fa tuttora, una chiazza bianca, come la manifestazione di una forza oscura che scaturendo da me, cerca di ostacolarmi in questi miei infiniti viaggi, di cui ignorerò sempre la meta.

sabato 6 marzo 2010

Poesie di A. Cani

Astrit Cani

La tela

un pelo di freddo sulla pelle
morbido ma tenace molto
che mi dipinge tutto color solitudine


Nato e cresciuto in Paradiso

di Satana
si sa che è nato e cresciuto
in paradiso
ma un giorno si è ribellato al creatore
e Questi non lo ha ucciso
sarebbe stato commettere un male?
ha forse riconosciuto in lui parte della sua opera?
fatto sta che non lo ha ucciso
così rendendolo più forte
per lo meno per un certo tempo e in un certo spazio




La mosca di burro (The butter fly)

la bolla che ribolle
in sogni di sapone
il nido ancestrale di tutte le forme
il bagno di tutti gli arsi asfalti di città
la mosca di burro
ampolla di spine rovinose
bosco di ombre fangose
bacino d’acque vorticose

lima sinuosa
peluria sontuosa
farfalla nera minacciosa

inceneritore di sogni e mondi
uovo per soli uomini sodi

eterna origine animale
buco tra dodici anelli che agogna la freccia regale
là dove ha termine e inizio
il supplizio chiamato supplizio


Lettera d'amore


Porvami che esisti
E io ti sposero'.


Snack bar Mediterran

i vetri oscurati
entro quattro salici
sono piovuti gli anni della mia prima giovinezza
tra mille sigarette e qualche poesia

questo era il microclima, per farsi su un sorriso per la vita
quella era la coppa delle promesse da bere d’un fiato
il resto del dramma erano schegge
otturanti i denti antichi del destino

scorrazzavano i cani del vento inodori
e condividevamo il massimo splendore
di quei giorni munifici, di partenze e arrivi
di ore dorate scandite da esili lancette nere quiete fango
e amori

lo Snack è il Cimbali dei miei ricordi
ancora, formulata con magia
mi bolle in testa aromatica la frase
in nome di Kafka, bevi quel caffè!